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Alberto Dambruoso

La storia dell’arte, notoriamente, non sono gli artisti a scriverla, bensì i critici e gli storici dell’arte. Ogni manuale di storia dell’arte è il risultato della visione di ciascun autore, il quale, nel tentativo di circoscrivere l’operato dei vari artisti in un determinato periodo storico, li incasella in movimenti e gli affibbia delle etichette, quali ad esempio
neorealista, pop, concettuale, poverista.

L’artista di cui vorrei parlarvi in quest’occasione è Cesare Tacchi, uno dei grandi protagonisti dell’arte italiana degli ultimi sessanta anni, ma che, almeno fino a qualche anno fa, ovvero fino a quando è stata allestita nel 2018 una sua straordinaria retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma che lo ha inquadrato finalmente nella sua interezza, era conosciuto quasi esclusivamente per la stagione “pop” delle tappezzerie, quadri dipinti a rilievo su stoffe prestampate. Il motivo di questa conoscenza limitata della sua ricerca era dovuto principalmente al fatto che nei libri di storia dell’arte ancor oggi viene citata (quando lo viene) solo questa tipologia di opere, come se l’artista fosse importante solo per questo.

Cesare Tacchi, che ho avuto il privilegio di frequentare per undici anni consecutivi, allacciando con lui un forte legame di amicizia oltreché di lavoro (tra le altre cose, ho organizzato e curato la sua ultima mostra personale nel 2010), è stato in realtà un forte sperimentatore, in grado di aggiornare continuamente la sua ricerca a partire dalla fine degli anni Cinquanta fino al 2014, anno della sua scomparsa.

Il suo è stato un percorso portato avanti in piena autonomia, sicuramente fuori dalle mode ma anche da un certo tipo di mercato che richiede sempre le stesse opere. Ragioni queste che, di certo, non hanno favorito una sua larga conoscenza.

 

Cesare Tacchi
Cesare Tacchi, I fidanzati, 1965. Foto Archivio Cesare Tacchi. Collezione privata.

Cesare Tacchi esordì giovanissimo all’interno di quella grande fucina di talenti artistici che fu la Scuola di Piazza del Popolo a Roma (nel gruppo romano facevano parte anche Schifano, Festa, Angeli, Kounellis, Fioroni, Rotella, Baruchello, Mauri, Ceroli, Cintoli, Bignardi, Pascali, Lombardo e Mambor) e, subito, si mise in evidenza, prima rielaborando la lezione di Burri, figura di riferimento per tutti gli artisti di area romana di quel periodo, poi quella di Mondrian in direzione di un superamento dell’Informale.

Nei primi anni Sessanta, Cesare Tacchi accoglie come tanti suoi compagni di strada dell’epoca, i primi elementi della nuova società di massa, inserendo all’interno delle sue opere particolari di marchi pubblicitari, di scocche di automobili da corsa o di bus urbani.

Con queste ultime opere dedicate al servizio di trasporto pubblico Cesare Tacchi si presenterà all’esposizione “Una mostra di tre giovani pittori romani. Lombardo, Mambor e Tacchi” tenutasi alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis nel 1963. Si tratta di una mostra fondamentale perché è qui che si possono capire le posizioni degli artisti romani rispetto ai colleghi americani in merito ai processi di standardizzazione dell’essere umano all’interno delle società di massa.

Cesare Tacchi, come già riferito, presenta delle figure anonime di persone che guardano fuori dai finestrini delle circolari; Renato Mambor invece presenta le sagome prelevate dalla segnaletica urbana e gli “uomini timbro” e infine Sergio Lombardo i Gesti tipici di uomini politici. Cesare Tacchi insieme ai suoi amici artisti, mirava a denunciare la perdita d’individualità e l’incapacità di autodeterminazione dell’uomo.

Al fine di recuperare le qualità degli individui, l’artista inizia a partire dal 1965 a costruire le famose tappezzerie. I soggetti di queste opere sono prevalentemente quelli di persone del suo ambiente: amici e artisti. Ma più che alla fisionomia delle persone, a Cesare Tacchi interessa maggiormente rappresentare i gesti, quelli semplici ad esempio che possono scaturire da una conversazione tra amici. Ecco allora opere come Quadro per una coppia felice, Amore, La mano nei capelli che testimoniano questa attitudine dell’artista nel riportare al centro dell’opera la sfera degli affetti o, in generale, una ritrovata naturale gestualità umana, liberata dagli stereotipi e dai condizionamenti esterni.

Intorno al 1967, Cesare Tacchi inizia a costruire una serie di opere ispirate al mobilio domestico ma non funzionanti. Si tratta di poltrone e altri oggetti impraticabili o meglio inutili come recita il titolo di una di queste opere (Poltrona inutile). Sono opere che volutamente intendono mettere in discussione la condizione di benessere diffuso favorito dall’introduzione su scala del mobilio per le famiglie borghesi che, secondo l’artista, portano invece all’alienazione umana. Tra queste progetta un letto ad acqua mossa, un trono su piedistallo inaccessibile, due porte che non si aprono e due sedie bucate.

 

Cesarte Tacchi nel suo studio, a Roma, nel 1965, in una foto di Plinio De Martiis, fondatore della Galleria La Tartaruga di Roma. Archivio Galleria Il Segno, Roma.

 

Con Poltrona inutile Cesare Tacchi partecipa anche alla mostra inaugurale del movimento dell’Arte Povera alla Galleria la Bertesca di Genova nel 1967. In una lettera rivolta a Maurizio Calvesi, con il quale Tacchi ha avuto un rapporto di grande amicizia per tutta la vita, definisce questi lavori “oggetto-quadri, impossibili, distruttivi e autodistruttivi”.

 

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