Facebook
Twitter
LinkedIn
Ivan Quaroni

La pittura è artificio

Paesaggi tra verità e finzione

 

Il pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres sosteneva che “une chose bien dessinée est toujours assez bien peinte”. Lo ricorda Giorgio De Chirico in un articolo pubblicato nel 1919 sulla rivista “Valori Plastici”. In quelle stesse pagine, il padre della Metafisica esortava i pittori ritornanti – quelli, cioè, che tornavano alla rappresentazione antropomorfa dopo le deformazioni delle avanguardie – a dotarsi degli strumenti tecnici necessari al conseguimento di tale impresa, primo fra tutti il disegno.

Tra i pittori contemporanei che hanno inteso la lezione del pictor classicus c’è il toscano Jacopo Ginanneschi, classe 1987, che ha sviluppato una pittura caratterizzata dalla precisione ottica e da una volumetria solida e chiara.

Ciò che è accurato e rigoroso nei suoi dipinti non deriva dalla visione monoculare della fotografia, ma da un’osservazione attenta e diretta della natura, disciplinata dall’abitudine di ritrarre dal vivo una morfologia paesaggistica che poi traspone sulla tavola in modo originale.

 

Ginanneschi
Jacopo Ginanneschi, Al di là del ponte, 2018, olio su tavola, cm. 92×90. Courtesy Galleria Rubin, Milano.

 

Bozzetti e studi di alberi, rocce e sentieri servono, infatti, a fissare nella memoria gli elementi che confluiranno nel quadro. Conta, però, il fatto che il paesaggio vissuto e osservato dall’artista sia un territorio in qualche modo già carico di memorie iconografiche, che riverberano nella tradizione pittorica del Trecento e Quattrocento toscani e in quella del Novecento riordinato di marca magico-realista.

Un deposito visivo in cui si ritrovano scorci, valli, colline e rocce che a loro tempo dipinsero i Primitivi senesi e i tardi pittori gotici della Rinascenza. Geografie recuperate anche dal Carrà post-futurista, innamorato di Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca e poi, negli anni Ottanta, da un pittore colto come Lorenzo Bonechi.

Da un lato radicata nei valori struttivi tradizionali, dall’altro proiettata verso un modo di sentire attualissimo, Ginanneschi mette a punto un alfabeto pittorico che insiste su strategie di rappresentazione niente affatto classiche o paludate. Significativa, infatti, è la scelta dell’artista di adottare una prospettiva multipla, antitetica al modello rinascimentale che organizzava lo spazio dal punto di vista di un osservatore esterno.

Nei dipinti di Ginanneschi, invece, i piani sfalsati e le prospettive incongrue invitano ad assumere un punto di vista interno al quadro, ad adottare, insomma, la visione di colui che guarda l’immagine da diversi angoli visuali, come si fa nei moderni tour virtuali. Questo stratagemma, usato anche da David Hockney in alcuni dipinti e collage fotografici, produce una sorta di straniamento, di spaesamento che in Ginanneschi risulta accentuato per effetto del contrasto tra la precisione retinica e la percettibile alterazione della spazialità dell’immagine.

A questa antinomia, presente in quasi tutti i suoi lavori, si aggiungono altri espedienti formali, come il sovvertimento di alcune regole di rappresentazione che l’artista definisce “anacoluti” spaziali e temporali.

Se l’anacoluto letterario è una figura sintattica priva di coerenza logico-grammaticale – come una frase che inizia con un soggetto e termina con un altro –, l’anacoluto pittorico di Ginanneschi somiglia a una rottura della coesione dell’immagine, che può essere originata da un’alterazione dei rapporti di scala o dalla compresenza di scene diurne e notturne.

Altro elemento importante della sua pittura è il recupero di nozioni tecniche degli antichi maestri – come nel caso del Libro dell’Arte di Cennino Cennini –, riguardanti vari aspetti della disciplina pittorica, dalla preparazione dei colori a quella dei fondi.

Dall’ancoramento ai valori tecnici e compositivi della tradizione scaturisce una pittura solida e sorvegliata con la quale Ginanneschi indaga stati d’animo quieti e riflessivi. I suoi paesaggi sono, allo stesso tempo, veridici – in quanto colgono il senso profondo del territorio toscano – e puramente ideali – perché filtrati da una sintesi metabolica che trasforma e, infine, trascende il dato meramente oggettivo.

“Tutta la storia della pittura”, scriveva Hermann Bahr, “è sempre storia del vedere” , ma il vedere è una forma di cognizione che combina le informazioni derivate dalla percezione retinica con le facoltà organizzative del pensiero, come peraltro dimostrano gli studi e i bozzetti di questo giovane artista toscano, rivelatori di un’acuta capacità selettiva.

 

 

Per ricevere il magazine a casa tua, abbonati subito!

Acquista qui i numeri precedenti!

Ti potrebbe interessare