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Alberto Dambruoso

Sentii parlare per la prima volta di Luigi Montanarini subito dopo essermi laureato. Avevo iniziato a collaborare con una galleria d’arte a Roma che aveva sede in quello che era il suo vecchio studio di via Margutta 51a. Quella via, tra gli anni ’50 e ’70, era diventata tra i luoghi più rinomati in tutta Italia per i tanti artisti che lì avevano studio e per le numerose gallerie che erano sorte nei suoi paraggi. Dall’Astrazione alla Nuova Figurazione, la maggior parte delle vicende artistiche passavano praticamente da lì e dalla vicina piazza del Popolo dove aveva sede la galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis, tra i più grandi galleristi d’avanguardia che abbia avuto l’Italia in quegli anni.

 

Luigi Montanarini, Composizione N° 6, Il Giorno, olio su tela, cm 130×200. Opera esposta nella sala personale alla XXIX Biennale Internazionale d’Arte Venezia del 1958.

 

Figura di primissimo piano nella storia dell’arte italiana dalla metà degli anni Trenta fino alla scomparsa, avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso, Luigi Montanarini è un artista di straordinaria grandezza che ha recitato una parte fondamentale nel rinnovamento del linguaggio artistico, non solo italiano. Fondatore insieme a Prampolini dell’Art Club, il maggior organo per la diffusione dell’arte italiana all’estero nell’immediato secondo Dopoguerra, Montanarini ebbe una carriera artistica costellata di grandi successi ed onorificenze che lo portarono a dirigere per dieci anni l’Accademia di Belle Arti di Roma.

Nato a Firenze nel 1906 e allievo di Felice Carena, Luigi Montanarini ha avuto un ruolo di primo piano nell’ambito allargato della cosiddetta Scuola romana: arrivò infatti a Roma dalla sua città natale nel 1933, allorché gli venne assegnato uno dei premi più prestigiosi dell’epoca, il Pensionato artistico nazionale (quello che oggi si chiamerebbe una “residenza d’artista”, con possibilità di accedere alle lezioni dell’Accademia di Belle Arti di Roma e di lavorare per quattro anni nella capitale). E fu proprio grazie a questa occasione che l’artista si stabilì a Roma e iniziò quel fitto giro di frequentazioni, di suggestioni e di sperimentazioni che lo portarono a partecipare attivamente alla vita artistica e culturale italiana del dopoguerra. La sua è stata soprattutto una vicenda di grande sperimentazione:
sperimentazione sulla luce, sul colore, sulle stesse strutture pittoriche fondamentali. Senza mai fermarsi alla superficie della pittura, scavando a fondo e cercando, instancabilmente. “In pittura”, diceva l’artista, “solamente facendo si scopre quello che si deve fare”. Segno inconfondibile di uno strenuo sperimentatore.

 

Luigi Montanarini nel suo studio al n. 51 di via Margutta nel 1956.

 

Ed ecco, allora, il passare di Montanarini attraverso ridefinizioni continue del proprio stile pittorico, dei propri riferimenti artistici, soprattutto nel passaggio dagli anni giovanili a quelli successivi, della piena maturità e del riconoscimento pubblico, fino ad approdare a quello stile libero da influenze esterne, dove la pittura stessa diviene ragionamento severo e rigoroso sulla composizione e sul colore, sempre cercato in base a una propria fortissima e salda “necessità interiore”. “Il mio stile”, scriveva l’artista in uno dei preziosi appunti dei suoi taccuini, “vuole essere mutabile e sempre nuovo, secondo il concetto che l’operare debba continuamente cambiare aspetto come nel corso dell’esistenza cambia aspetto, di volta in volta, ai nostri occhi, quello che ci circonda”. Il rapporto col reale, dunque, questione tanto sentita e tanto impellente, che attraverserà il corso del Novecento a fasi alterne, diventerà con Montanarini elemento nuovo, di nuova analisi delle necessità interiori di una pittura libera da schemi se non quelle del proprio rigore interno, della propria ricerca profonda, del proprio sentimento della pittura.

Comprese bene, Montanarini, che la pittura aveva bisogno di una svolta, di nuovi sguardi e nuove sensibilità, e la sua ricerca lo portò naturalmente a una ricerca basata sulla luce e sul colore, attraverso un mezzo che fosse finalmente libero da ogni influenza naturalistica, e dove lo spazio stesso della pittura fosse soltanto, come ebbe a scrivere il suo amico Virgilio Guzzi, “prodotto delle misurate e ben calcolate armonie tonali”. È il periodo, felice e produttore di tante sperimentazioni future, in cui Montanarini purifica letteralmente le sue composizioni, semplificandole e stilizzandole con accostamenti di elementi sempre più lineari. “La mia pittura”, scriveva ancora l’artista nei suoi taccuini (siamo nel 1962), “è la storia di un continuo ricominciare da capo; di continue metamorfosi e di continui rinnovamenti. Nello stesso tempo è la storia di una nascosta fedeltà ad un carattere fondamentale. Perciò amo contraddirmi, perciò amo, di proposito, tentarmi e negarmi, e per la stessa ragione sento di potermi avventurare serenamente in qualsiasi nuova direzione nella ricerca della mia verità”.

 

Luigi Montanarini, Lacerazioni, 1979, cm 80×60.

 

Testimonianza di un successo e di un riconoscimento unanime che non sempre oggi vanta l’eco che gli meriterebbe, la pittura di Montanarini ha avuto nel corso del tempo ampio spazio e riconoscimento nel mondo dell’arte: dalle opere esposte alla IV Quadriennale di Roma, nel 1943, e via via, riconoscimenti importanti, come il premio Michetti, nel 1948, o il Premio Taranto nel 1950; senza dimenticare i molti inviti successivi alle Biennali di Venezia, o di come le città di Roma e Parigi (sempre nel 1950), gli riconobbero il primo premio di pittura, traguardo ai tempi di grandissimo rispetto. Ma non solo: critici dell’importanza di Roberto Longhi, Lionello Venturi, Ludovico Ragghianti, Emilio Villa, Carlo Giulio Argan, solo per citare i più importanti, hanno portato il loro contributo, offrendo il loro punto di vista critico e attestando l’importanza di un percorso artistico che ha una sua coerenza e una sua solidità che rimangono importanti nella storia culturale del Novecento italiano.

Non sempre la sua statura di artista ebbe, è vero, i riconoscimenti che avrebbe meritato. Già nel 1940, Renato Guttuso, pittore non vicino a lui come gusto, ma di grande intelligenza anche critica, aveva vaticinato un tardivo riconoscimento del suo amico: “A Luigi Montanarini dovranno un giorno riconoscersi grossi meriti quando la storia sarà divenuta più attenta”, scrisse. E così è stato. Oggi il nome di Luigi Montanarini comincia a tornare in auge, dopo un ventennio in cui la sua opera aveva avuto meno attenzione di quel che avrebbe meritato. La pittura di grande livello di Montanarini, dal periodo della Scuola romana degli anni ’30 e ’40 a quella di marca astratta dagli anni 50 in poi, è visibile a tutti coloro che di pittura se ne intendono. Perché un artista può anche morire ma la sua arte, soprattutto se di qualità, rimane per sempre. D’altronde un certo Caravaggio rimase per due secoli sconosciuto a tutti, e venne riscoperto da Roberto Longhi nel corso della seconda decade del Novecento. Quel Longhi, guarda caso, tra i primi a scoprire ed apprezzare anche la pittura di Luigi Montanarini.

 

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