Facebook
Twitter
LinkedIn
Alessandro Riva

Cosa sognano i personaggi invisibili che popolano i quadri di Nicola Caredda? Sono forse anche loro, come gli androidi del romanzo più celebre di Philip K. Dick (Do Androids Dream of Electric Sheep?), immersi in una complessa attività onirica che ripropone, in termini solo leggermente differenti, gli stessi paradigmi, gli stessi scenari, le stesse meste e conformistiche speranze dei sogni degli umani – la “pecora elettrica” del titolo del romanzo di Dick, da cui Ridley Scott ricaverà poi il film-cult Blade Runner, non essendo altro, nella San Francisco postatomica in cui il romanzo è ambientato, se non uno status symbol elementare, al pari di un elettrodomestico qualsiasi, di una vita umana ormai staccata da qualsivoglia elemento naturale e di un’umanità privata delle emozioni, dei sentimenti, delle relazioni sociali tra uomini che non siano quelle del paesaggio tecnologico sempre più invasivo e asfissiante, in una sorta di allucinato ed eterno terrain vague desertico, semiabbandonato, dal sapore postapocalittico e iperallucinato, fatto di polvere radioattiva che ricopre ogni cosa, detriti di un passato ormai remotissimo, tra lavori alienanti, droghe sintetiche, palazzi abbandonati, luci al neon, vecchie insegne di un passato lontano nel tempo di cui gli umani non serbano quasi più memoria, mentre i loro simili creati in laboratorio a loro immagine e somiglianza, i replicanti, coltivano eternamente falsi ricordi creati in laboratorio per equipararli il più possibile agli umani?

 

Nicola Caredda, Untitled with Carl Orf Tonigth, 2019, acrilico su tela, cm 116×96. Courtesy The Bank Collection.

 

Eppure Nicola Caredda non ci parla, come Dick, di paesaggi fantascientifici. Anzi, ne prende subito e le distanze: “il mio”, dice, “non è un mondo del futuro. Il mio è solo il mondo di oggi. Sono scenari che ho visto, che ho vissuto, che tutti noi vediamo ogni giorno, anche se a volte non ci facciamo più quasi caso”.

Se allo spettatore che si trovi per la prima volta di fronte un paesaggio di Nicola Caredda potrà sembrare una dichiarazione paradossale, essendogli forse difficile ritrovare, in quei colori allucinati e lisergici, in quell’atmosfera inesorabilmente détournante, in quelle rovine bruno-violastre degne delle peggiori (o migliori) serie tv sul futuro, il proprio presente di oggi, ebbene, è dopotutto ancora Dick, o altri suoi colleghi, come Orwell, Asimov, Ballard, William Gibson, solo per citarne alcuni, pionieri della grande letteratura di fantascienza, che la nostra mente vola in maniera automatica, così come non è difficile che le scene dipinte da questo costruttore di visioni folgoranti e lisergiche rievochino scenari tratti dalla grande cinematografia visionaria contemporanea (da Baz Luhrmann a Álex de la Iglesia, da Terry Gilliam a Lars Von Trier, da Tim Burton fino a Kubrick, a Jodorowsky e a Fellini, veri e propri “numi tutelari” della poetica dell’artista), che dalla science fiction scivolano inevitabilmente verso altri generi, come quelli ucronici o di un tempo sospeso, né veramente presente né del tutto passato, ma solo un eterno presente parallelo e metaforicamente similissimo al nostro, ormai apertamente distopico.

 

Nicola Caredda
Nicola Caredda, Untitled with RealBitch, 2018, acrilico su tela, cm 40×50. Courtesy The Bank Collection.

 

“Eppure”, spiega l’artista, “quando dipingo, non penso alle scene dei film di fantascienza, o alle serie tv, o al cinema, e neppure ai libri che ho letto. Tutto questo c’è, ma come un sottofondo costante, di cui non sono consapevole e che non emerge mai se non in maniera subliminale, diciamo nel mio inconscio di artista, che tutto vede, macina e frulla in un unico calderone semantico. Penso invece al presente, alla nostra vita di tutti i giorni. O magari a un presente altro, parallelo al nostro, ma in fondo molto simile al nostro, tanto che mi trovo spesso a chiedermi se e quando io sia mai stato nei luoghi che dipingo”.

Ci sei stato, dunque?, gli chiediamo a bruciapelo. “Sì, ne concludo: ci sono stato, in effetti. In una periferia di Sassari, di Cagliari, o di qualsiasi altro luogo che ho visitato, di persona o con la mia mente, in un sogno o in un pensiero folgorante di un istante. Io costruisco mondi, scena dopo scena, paesaggio dopo paesaggio, come uno scrittore costruisce il proprio universo simbolico”.

E, che sia un universo pittorico ma con una chiave fortemente narrativa, non è in discussione: a chi, dopotutto, quei paesaggi strani, solitari, inquietanti, abbandonati, non rievocano istintivamente qualcosa – una scena di un romanzo che non ha mai letto, di un film che non ha ancora visto, di una vita che non ha vissuto, ma che pure conserva fatalmente qualcosa in comune con tante scene viste, immaginate, vissute nel corso della propria esistenza?

Nicola Caredda, quarant’anni, milanese d’adozione ma sardo di Quarto, in provincia di Cagliari, nato e cresciuto, in età adolescenziale, con i “pezzi” fatti in strada come writer (la sigla della sua prima crew, MPM, compare ancora in molti quadri di oggi), da cui ha tratto la passione per i colori artificiali – gli stessi delle bombolette che usava in gioventù – e per gli scorci di periferie abbandonate (ieri delle quali ricoprire i muri scrostati di tag, oggi da riprodurre su tela, rielaborandole in chiave fantastica), è, tecnicamente, un narratore di mondi fantastici e immaginari, un creatore di potenziali best seller pittorici: la sua tecnica, che a prima vista parrebbe frutto di un lavoro eminentemente emozionale, di pura fascinazione visionaria e profetica, è in realtà millimetricamente studiata, ragionata, costruita in ogni suo singolo pezzo.

 

Nicola Caredda, Untitled with Dead’s All Folks, Air Jump, 2018, acrilico su tela, cm 210×175. Courtesy The Bank Collection.

 

Come uno scrittore di best seller costruisce la trama narrativa della sua storia, dosando accuratamente i dialoghi, i colpi di scena, il climax ascendente e discendente della trama che vuole mettere sulla carta per colpire ed emozionare il lettore, così Caredda confessa, senza alcuna remora snobistica, che la costruzione di ogni quadro è, per lui, un perfetto meccanismo pittorico, di cui è necessario saper dosare gli elementi, tutti perfettamente collegati tra loro per concorrere all’effetto finale.

“A volte mi sembra di essere, prima ancora che pittore, un copy o un pubblicitario: so in anticipo di quale elemento la scena che voglio dipingere necessita in un punto, se ci vuole, e dove, una scritta al neon, un’automobile abbandonata, una scala, una piccola bomba atomica che esplode in un angolo, come i petardi e le bombette che, da bambini, ci divertivamo a far brillare in strada per sorprendere gli adulti”.

Così, l’artista crea giorno dopo giorno un nuovo tassello del suo mondo immaginario, inserendo la porta di un antico negozietto che si apre sul nulla, ma con ancora la sua brava luce al neon accesa, uno strano e metaforico scivolo circolare, in cui nessuno può entrare né uscire, la statuina di una madonnina che sembra spuntare da un’esplosione che ricorda da vicino un piccolo fungo lisergico, una pianta dalle foglie impazzite, il cavalcavia di un’autostrada a fare da sfondo su un cielo chimico e minaccioso, e poi scritte, tag, muri diroccati, suppellettili semidistrutte, carrelli della spesa, teschi, vecchi poster strappati, cartelli stradali che non indicano più nulla, scenari diroccati di un passato che sembra aver perso persino il ricordo dell’ordine e del senso immaginato da chi l’aveva, un tempo, accuratamente progettato.

Il futuro, per Nicola Caredda, costruttore di visioni profetiche di un presente altamente distopico, non è più di là da venire: è già qua, tra noi, e siamo noi stessi gli abitanti che, guardandolo, sognandolo, vivendolo nella nostra stessa fantasia, coi nostri sogni distorti e con la nostra sensibilità ormai disancorata e contraddittoria, lo costruiamo con lui via via che esso si manifesta ai nostri occhi.

 

 

 

 

 

 

Per leggere l’articolo completo, abbonati ad ArteIN.

 

Ti potrebbe interessare