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Christian Marinotti

L’attuale numero della rivista si occupa del rapporto tra arte e ambiente, arte ed ecologia. Mi sembra allora coerente e persino opportuno proporre qualche riflessione sulla XVII Biennale dell’Architettura in corso a Venezia, che vede proprio nell’ambiente, nella sua difesa e preservazione, uno dei principali temi di ricerca e discussione.
Aspetto iconico e nevralgico del rapporto tra architettura e ambiente è incarnato dal paesaggio, ritenuto con non poca preoccupazione dagli architetti come precario, vulnerabile, insomma fragile. Ma può mai essere fragile un paesaggio? Oppure è l’architettura ad essere fragile? Periferie, strutture emergenziali e di accoglienza, spazi di aggregazione e di integrazione sociale, oltre a riflettere l’estrema fragilità del genere umano in quelle condizioni di vita, denunciano altresì la fragilità delle risposte, delle soluzioni realizzate, costruite negli anni da buona parte dell’architettura. Fragile l’uomo dunque, e fragili sovente, nel senso di inadeguati, gli interventi dell’architettura in suo soccorso.
Vi è però un ulteriore elemento di fragilità, una sorta di tarlo che scava sottotraccia e mina la questione alle sue fondamenta: il concetto stesso di paesaggio. Il paesaggio infatti è fragile per definizione, è la natura ad essere forte sebbene depredata e persino brutalizzata dal genere umano. Il paesaggio è fragile perchè è una finzione di natura, così come un acquario è una finzione di Oceano. Il paesaggio è natura in vitro, è la delimitazione virtuale di un’ area, di uno spicchio più o meno ampio di quella parte di mondo a puro uso e consumo dell’umanità che ci vive.
Incorniciare la natura, delimitarla artificialmente o anche solo concettualmente in paesaggio, stride in modo persino scabroso con le sorti del pianeta.

 

Paesaggi fragili
17. Mostra Internazionale di Architettura, La Biennale di Venezia, How will we live together?, Pavilion of Hungary, Othernity, Reconditioning Our Modern Heritage. Foto Francesco Galli.

 

Come si concilia il paesaggio, quale porzione della natura che ci interessa e in cui viviamo ed operiamo, con tutto il resto del pianeta, la gran parte abbandonato allo sfruttamento selvaggio, all’incuria degli uomini, alle devastazioni del cambiamento climatico, alla fame dei pochi ancora rimasti?
Tutele e vincoli stringenti da un lato e sforzi progettuali dall’altro intervengono a costruire e regolamentare aree del pianeta sopra le quali l’uomo insiste, ma dove è sempre più evidente stia perdendo il senso dell’ “abitare”, e così l’uomo non solo è confinato nel suo paesaggio, ma ormai dimentico della natura, di una reale dimensione naturale (che non sia quella nella quale “immergersi” in vacanza….).
Se gli uccelli hanno appreso come servirsi delle antenne televisive in luogo dei rami, è perchè l’esperienza del mondo esterno, la percezione della natura, può essere molto più plastica, flessibile e adattabile di quanto non ammetta l’odierna riflessione architettonica che pensa insistentemente in termini di paesaggio, quando l’uomo per millenni ha pensato, parlato, scritto di natura.
La miniaturizzazione della natura e la sua focalizzazione in paesaggio imbalsamano quella porzione abitata di mondo tanto da renderla inospitale e persino ostile, tra colate di cemento da un lato e norme, divieti, vincoli dall’altro, mentre l’odierna civiltà trascura, abbandona o persino distrugge immense aree del pianeta.
Per curare i “paesaggi fragili” occorre prima di tutto superarli, favorendo sia il recupero del senso e della libertà dell’abitare, sia acquisendo un rinnovato rapporto con la natura nel suo complesso, considerando il mondo come un articolato organismo con il quale cercare di interagire in modo armonico.
Basta parlare di territorio, torniamo a parlare di terra, nel triplice senso di globo, così come di suolo, ma anche luogo della nostra origine e della nostra memoria.
Apriamo l’orizzonte del nostro pensiero e della nostra azione, usciamo dai confini del paesaggio e iniziamo a ragionare e, perchè no, a progettare in termini di mondo.

 

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