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Alessandro Riva e Rebecca Delmenico

Il suo ultimo lavoro si intitola, significativamente, Winter, “Inverno”. È un’installazione che Sandy Skoglund, 74 anni, americana, una delle pioniere della cosiddetta Staged Photography (fotografia “scenografica”, o preparata sul set), ha realizzato in quasi dieci anni di lavoro preparatorio.

Ma la realizzazione finale dell’opera e la sua presentazione al pubblico sono arrivate, come in certe fatali convergenze che si realizzano, quasi senza intenzione, nella vita come nell’arte, all’alba di un cambiamento epocale che ha sconvolto il pianeta, mettendo in forse certezze acquisite (come la possibilità di agire e di spostarsi liberamente, il sottile equilibrio tra libertà e sicurezza individuale, oltre alle manifestazioni della nostra stessa affettività e della relazione con il prossimo), in una sorta di “inverno psicologico” nel quale il mondo intero sembra essere caduto dall’inizio del 2020, e da cui soltanto ora, tra ferite, sconfitte e cocci da rimettere faticosamente insieme, ci sembra di intravedere una seppur lontana via d’uscita.

Del resto, Sandy Skoglund è da decenni un’artista che, col suo lavoro insieme giocosamente spettacolare, all’apparenza disincantato e quasi favolistico, e tuttavia profondo, complesso, sottilmente malinconico e fortemente critico dei meccanismi di quella che Guy Debord già negli anni Sessanta del Novecento denominò, con folgorante intuizione critica e un senso di fortissima anticipazione degli sviluppi sociali ed economici dei decenni immediatamente successivi, Società dello Spettacolo; ha saputo mettere in luce, come pochi altri artisti hanno saputo fare, i paradossi, le contraddizioni, le distopie, le paure, le incongruenze e le paranoie del contemporaneo avanzato.

Dai suoi primi lavori importanti e riconosciuti a livello internazionale, come l’inquietante Radioactive Cats del 1980, o il bellissimo Revenge of the Goldfish del 1981, in cui un bambino veleggia in un mondo immaginario fatto di 120 pesci rossi che nuotano intorno alla sua stanza (quasi una metafora del nostro mondo sognante e fatalmente estraneo alle banalità del quotidiano), e via via con Fox Games, del 1989, o Gathering Paradise, del 1991, nei quali strani animali colorati sembrano avere preso il possesso di un mondo nel quale l’uomo stesso si sente sempre più isolato e alieno, Skoglund ha sempre lavorato sui concetti opposti, antinomici e complementari del reale e dell’immaginario, del vero e del falso, dell’ordine e del caos, del razionale e dell’irrazionale, del conscio e dell’inconscio.

Le sue foto ci lasciano insieme costantemente affascinati e perplessi, quasi ci trovassimo di fronte a un’“immagine aliena” (come l’ha definita Germano Celant nel catalogo dell’ultima mostra dell’artista), incapaci di comprendere se quello che vediamo appartenga al mondo reale o a quello della nostra immaginazione, o a entrambi: un’immagine ambigua, incerta, fluida, insieme affascinante e terribilmente inquietante, che sembra rappresentare il nocciolo della nostra stessa vita “come una bufera visiva”, come la definisce l’artista in questa intervista esclusiva che ha rilasciato per il nostro giornale.

 

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Sandy Skoglund, Winter, 2019 (Preview). © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

Sandy, tu hai sempre lavorato sul sottile crinale che esiste tra artificiale e naturale, tra vero e falso, tra realtà e apparenza. Credi che in qualche modo il tuo lavoro abbia anticipato la deriva fortemente “finzionale” della società contemporanea, dove il confine tra reale e fittizio sembra sempre più spesso scomparire in favore di una realtà meticcia, dove la nostra vita e la finzione si confondono in maniera inestricabile?
Ci sono diverse “realtà” che coesistono e si sovrappongono. Queste molteplici realtà sono in continuo movimento e lottano per il loro predominio nella cultura e nella natura. L’autentica realtà psicologica viene proprio dall’”esperienza vissuta”. In totale onestà come ci si sente ad attraversare la vita o ad immergervisi, senza guardarsi mentre lo si fa? Quello che cerco di fare è di esprimere questa realtà primordiale ibrida… la sensazione di “camminare attraverso”.
La sensazione d‘immersione totale è fondamentale per la mia pratica artistica. Devo raggiungerla io stessa per continuare ad andare avanti… devo perdere la cognizione di me stessa. Come ha detto Albert Camus, “se vai alla ricerca della felicità, non la troverai mai”. Nel mondo odierno fatto di selfie e social media, in questa deriva fittizia su cui naviga la società contemporanea, è diventato sempre più difficile raggiungere quell’esperienza, il brivido di scomparire nel tessuto del momento. Penso di essere molto sensibile a questo sentimento e il mio lavoro esprime proprio quella sensazione d’isolamento all’interno di una matrice opprimente e complicata.

 

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Sandy Skoglund, Radioactive Cats, 1980. © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

Per realizzare il tuo ultimo progetto, Winter, hai impiegato dieci anni tra studi, sperimentazioni, ricerche. Il risultato è sorprendente: sembra avere qualcosa di ossessivo e nuovamente di profetico. Il mondo freddo, “invernale”, chiuso, artificiale solitario che si respira in questo ultimo lavoro sembra una perfetta metafora di quell’ “inverno emotivo” che noi tutti stiamo vivendo con la pandemia. Credi che ci sia un legame con questo stato d’animo collettivo, e che stiamo effettivamente vivendo una sorta di “inverno” delle emozioni, delle relazioni, della cultura, dell’amore?

Sembra che il mondo sia stato messo “in pausa” durante la pandemia… la macchina dell’esistenza quotidiana ha gradualmente rallentato. Stiamo aspettando che finisca, come un’eco sinistra della nostra speranza annuale che la primavera arrivi a salvarci dall’inverno… solo che questa volta sono gli esseri umani a venire in soccorso di loro stessi. La natura è indifferente all’uomo, e allo stesso modo il virus non ha sentimenti. Vuole solo “vivere”. Questa pandemia è un ridimensionamento della percezione del nostro potere nell’universo. È una lezione di umiltà.

Guardando indietro al 2008, il progetto intitolato Winter riguardava sempre la neve: com’è possibile che qualcosa di così bello da guardare possa essere allo stesso tempo così minaccioso e pericoloso?
È un altro dei tanti elementi contrastanti su cui ho lavorato nel corso degli anni. Il tema della neve ci fa immediatamente pensare ai fiocchi di neve e a quell’idea, a noi familiare, per cui non esistono due fiocchi di neve uguali. Si potrebbe dire che i fiocchi di neve sono infinitamente simili e diversi. Così la struttura del fiocco di neve ha formato il primo concetto di Winter. Apparenza e realtà sono un altro tema che ho affrontato con le sculture dei gufi. Mentre il processo di lavoro di Winter andava avanti, ho riflettuto su come le cose appaiano all’esterno e come si sentano invece al loro interno.
Noi spesso nascondiamo i nostri sentimenti appiccicandoci un sorriso sul volto. Ho osservato immagini di gufi con le loro facce sorprese e i loro enormi occhi rotondi. In particolare, la specie chiamata Great Horned Owl ha una faccia che sembra imbronciata. È difficile evitare la sensazione che il gufo sia arrabbiato, anche se sappiamo che la sua espressione è una caratteristica anatomica che non ha nulla a che vedere con i sentimenti.
Il terzo tema di Winter è lo sguardo verso lo spettatore. Fin dall’inizio, quest’opera è sempre stata una riflessione sui fiocchi di neve e sul controllo. Occhi velati sotto i fiocchi di neve guardano in ogni direzione, come se l’universo ci osservasse. Chi sta guardando chi? Tre uomini sono rannicchiati sul fondo, mentre un bambino guarda qualcosa fuori dall’inquadratura.

In quest’ultimo lavoro, il carattere di artificialità del paesaggio è accentuata dalla presenza di sculture, realizzate con tecnologie 3D, che si aggiungono alle persone vere nell’installazione. Com’è nata l’idea, come mai questa scelta?  Credi che ci sia un progressivo spostamento anche del nostro concetto di naturale e di artificiale, verso una definitiva “finzionalizzazione” della realtà?
L’uso della tecnologia 3D è stata una scelta per immergermi nelle possibilità offerte dal computer come strumento di scultura. È stata un’avventura. Mentre imparavo a scolpire con il computer ho dovuto accettare il fatto che il risultato finale sarebbe stato naturalmente quello di una macchina. Per questo motivo c’è una sensazione di levigatezza e rigidità che pervade le sculture di Winter.
Ho voluto deliberatamente tenere le mani lontane dalle sculture, come se si fossero materializzate direttamente dal mio cervello. La goffratura e l’incisione dei fiocchi di neve sulla superficie delle sculture è stata la mia parte preferita nel processo di lavorazione 3D: è l’ultima cosa che si fa sul file digitale, come la glassa su una torta.

La tua pratica artistica ha sempre avuto qualcosa di profetico, di anticipatore, anche di inquietante. Tu costruisci perfetti teatri artificiali, pieni di oggetti, di cibi e di animali artificiali, che paiono usciti da un film di Tim Burton, all’interno del quale si muovono persone smarrite, solitarie, schiacciate dalla difficoltà di relazionarsi con questo mondo nel quale sembrano muoversi da estranei. Nel corso della tua carriera, hai avuto la percezione di stare costruendo, con la tua pratica artistica, una perfetta metafora della società di oggi, sempre più artificiale, ossessiva, prigioniera delle sue stesse regole, delle sue strane architetture, dei suoi oggetti che hanno perso ogni contatto l’ambiente naturale?
Negli anni Sessanta ero una giovane studentessa d’arte e mi trovavo di fronte a una tela vuota. Qual era la mia tematica? A quel tempo l’astrazione pura aveva un forte seguito che era iniziato negli anni cinquanta con Pollock e altri. Per me, negli anni Settanta, l’astrazione era un vicolo cieco. C’erano troppe cose che succedevano intorno a me per guardare dall’altra parte. Così decisi di osservare solo ciò che mi circondava e la mia prima impressione fu quanto fosse affaccendato il mondo. A casa nostra, da piccola, nessuno stava mai sdraiato a rilassarsi. Si lavorava sempre, ci si muoveva, si andava da qualche parte, si agitavano continuamente le molecole dell’esistenza. Questa sensazione si è tradotta per me in una sorta di horror vacui culturale, un’immagine della vita come una bufera visiva.

 

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Sandy Skoglund, Fox Games, 1989. © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

Tu sei nata nel 1946 a Weymouth (Massachusetts) e hai vissuto con la tua famiglia nei tipici sobborghi ben curati della periferia americana, che hai descritto as a boom baby environments. La tua famiglia si spostava spesso, eppure è come se il ricordo di quei paesaggi curati, un po’ finti e angoscianti, sempre uguali a sé stessi, avesse condizionato il tuo immaginario successivo. Cosa ricordi di quel periodo? Credi che quei luoghi, con il loro senso di solitudine e di alienazione dal mondo, abbiano influenzato la tua visione del mondo e del fare artistico?
L’espressione baby boom deriva dall’impennata del tasso di natalità avvenuto negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946 al 1964. Ricordo molto bene quegli anni. Ricordo ogni casa, ogni quartiere, ogni scuola, tutto, come atti di una commedia. Ogni trasloco era un’opportunità per ricominciare, per farsi nuovi amici, per conoscere un’altra parte degli Stati Uniti. Siccome generalmente ci trasferivamo in una nuova casa costruita di recente, c’era sempre una sensazione clinica, pulita che mi faceva una certa impressione. La nostra nuova casa era di solito circondata da altre nuove case che facevano parte di un complesso residenziale tipico della periferia americana. Gli edifici si assomigliavano tutti, con leggere somiglianze e differenze. L’identità di ogni complesso residenziale era creata dalla somiglianza delle case. Questa enfasi tra somiglianza e differenza ha avuto un grosso impatto su di me. Nel complesso, sembrava che la natura fosse stata addomesticata e rimodellata, se non cancellata.

Fin dalla tua adolescenza hai manifestato interesse a inventare e disegnare continuamente storie? Come e quando nasce in te questa esigenza?
Ho sempre sognato e disegnato ad occhi aperti, anche da bambina. Durante il mio primo anno di scuola, all’età di 6 anni, ricordo che disegnavo sempre sui miei libri. I miei amici mi chiedevano spesso di disegnare per loro. La suggestione del disegno era sempre lì, senza che ci sia stato un punto di partenza in particolare. Il disegno è così, semplice e diretto. Disegnavo su superfici inaspettate, come la testiera di legno del mio letto. Ci graffiavo dentro con una forcina affilata, inventando storie che illustravo di notte prima di addormentarmi.

 

Sandy Skoglund, Winter, 2019. © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

Quando la tua famiglia si trasferisce a Orange in California, descrivi uno “shock culturale” dato dal forte interesse (siamo agli inizi degli anni Sessanta) verso la cultura pop. Questo ha avuto molta influenza sul tuo lavoro successivo, con i suoi oggetti e animali coloratissimi e dall’aspetto artificiale, che paiono usciti da un vecchio telefilm di fantascienza?

Nella mia vita in effetti ho avuto una formazione tipicamente Pop, per cui la cultura Pop ha avuto una grande influenza su di me. Quando avevo 14 anni ci siamo trasferiti dalla East Coast alla West Coast, stabilendoci per qualche anno nel sud della California. Era come se qualcuno avesse acceso le luci in una stanza buia. I colori erano aggressivi, vibranti ed erano dappertutto. L’abbigliamento era particolarmente influenzato dai motivi hawaiani. Entrare nella classe al liceo era stato come entrare in un film di Hollywood sui surfisti. Avevo compagne di classe che sembravano starlette completamente truccate, con tacchi alti e capelli decolorati che venivano cotonati in forme elaborate.
Quando avevo diciassette anni ho lavorato allo Space Bar a Disneyland vendendo snack durante l’estate per guadagnare soldi per il college. Da dietro il bancone dello Space Bar potevo vedere la torreggiante montagna artificiale del Cervino, fatta di plastica, con corde che arrivavano fino in cima. Di tanto in tanto ci fermavamo tutti a guardare come un impiegato, in costume da Campanellino, usasse le corde per volare sopra di noi a Tomorrowland.

La paura, l’angoscia, una specie di ossessione verso qualcosa di mai chiarito e mai esplicitato sembrano alcuni dei temi ricorrenti nel tuo lavoro. È così? È una tua precisa scelta tematica o è un effetto naturale della tua visione del mondo?
La paura e l’ansia sono un normale stato d’animo. Sono sentimenti primari condivisi da tutti gli esseri viventi che
si destreggiano per rimanere in vita. Cosa c’è da stare calmi? La vita è una serie di ostacoli da superare. Il significato della mia vita sta proprio nella lotta stessa, non nell’obiettivo finale. La pratica artistica è l’opportunità di creare una lotta significativa. Non basta, come sostengono alcuni filosofi, dire che il processo e la lotta sono tutto. Molte persone vivono battaglie quotidiane che non hanno scelto, e non sentono necessariamente che la loro vita sia più significativa per questo. Ma se scegli la tua lotta, ne sei responsabile, e allora sarà lei ad alimentarti con una sorta di energia ispiratrice.

 

Sandy Skoglund, Cats in Paris, 1993. © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

Anche il difficile e controverso rapporto tra ordine caos sembra essere un tema centrale nel tuo lavoro, che segue ogni installazione come un invisibile fil rouge. Credi che anche questo possa essere letto come una metafora della società di oggi, dove un continuo tentativo di dare ordine al caos si scontra con la complessità e contraddittorietà del contemporaneo?
Ordine e caos mi hanno sempre affascinato. La mia camera da letto da bambina era caotica, un disordine deliberato che contrastava con l’ordine immacolato del resto della casa. Molto presto ho avvertito che l’ordine eccessivo era innaturale. Perché rifare il letto, se ci dovrai tornare solo di notte? La complessità e la natura contraddittoria del mondo contemporaneo creano un tremendo senso di disagio sociale e psicologico. Sì, credo che il tema dell’ordine e del caos sia un interessante specchio della realtà. Cos’è più bello, l’ordine o il caos? Con Winter l’elemento più bello consiste nelle lamine accartocciate sul pavimento e sul muro, qualcosa di simile al mio letto sfatto da bambina, che contrasta con il controllo manifestato nel resto dell’immagine.

Tra i temi presenti in molte tue installazioni c’è il cibo. All’origine di questo interesse per il cibo con le sue connotazioni colorate, bizzarre, artificiali c’è anche la tua occupazione giovanile di venditrice di snacks e di decoratrice di torte a strati per una catena di montaggio al Sander Bakery Factory? O il tema del cibo ha anche altri risvolti culturali, estetici e sociologici?
La pancia non mente. Un esercito marcia con la pancia piena. Al contrario, la mente può giocare brutti scherzi. Io dico spesso che spero che la gente reagisca ai miei lavori con la pancia invece che con il cervello. Il mio interesse per il cibo come soggetto risale alla mia passione per le uova di Pasqua e ad altri tipi di iconografia alimentare, come i bastoncini di zucchero a Natale. Il cibo ha un aspetto unicamente unificante perché tutti mangiano. L’iconografia può essere elementare, decorativa o entrambe le cose. Mi piace come gli esseri umani s’impegnino tanto per rendere il cibo attraente, come se senza l’estetica non potessimo mangiare.

Anche gli animali sono spesso presenti nei tuoi lavori, a partire da Revenge of the Goldfish, a Radioactive Cats e oltre. Cosa rappresenta la presenza animale nei tuoi lavori? E perché gli animali sono spesso rappresentati con un aspetto vagamente inquietante, come se uscissero da un quadro surrealista o da una pellicola di fantascienza?
Il mio interesse per gli animali risale alla mia infanzia, quando i cartoni animati di animali erano avvincenti come la vita quotidiana. Lo sguardo di un animale è come una finestra aperta su un altro universo. C’è un altro mondo in cui loro stanno vivendo, un mondo affascinante e irraggiungibile.
La presenza degli animali nel mio lavoro rappresenta il legame tra noi e il mondo naturale. Guardiamo negli occhi di un cane e il cane ci guarda. In quel momento noi sappiamo che non siamo l’unica coscienza esistente nell’universo. Questo genere di multicoscienza è inquietante, perché introduce un mondo di caos e complessità che noi stessi non riusciamo a vedere. Così, nel mio lavoro, cerco di mostrare la realtà così com’è realmente: una rottura del tessuto della nostra ordinata coscienza umana.

Fin dagli anni Sessanta sei stata più volte in Italia, hai visitato musei, e a Firenze, durante l’esondazione dell’Arno, hai aiutato a salvare i manoscritti di un monastero e a ripulire dal fango. La cultura figurativa italiana ha avuto un’impronta importante per te e per la tua formazione? Quali sono stati gli artisti a cui hai guardato di più?
Sono sempre stata interessata agli artisti che hanno lavorato con diversi tipi di media, mi vengono in mente ad esempio Edgar Degas e Claes Oldenbourg per la loro padronanza del segno e per la capacità di lavorare sulla bi e tridimensionalità. Mi piace guardare all’espressione figurativa nell’arte. In qualche modo, le mie immagini sono ispirate dalle opere espressioniste di pittori come James Ensor, Oskar Kokoschka ed Egon Schiele. Da una prospettiva concettuale, ho sempre nutrito interesse per gli artisti poveristi Giuseppe Penone e Alighiero Boetti.
Amo i lavori con il cibo che Penone ha realizzato negli anni Sessanta. E ho avuto la fortuna di incontrare Boetti nel 1974, quando venne in visita alla scuola dove insegnavo. Del lavoro concettuale di Boetti, ho sempre pensato che fosse bellissimo dal punto di vista visivo, oltre che acuto e intelligente.

Più volte hai dichiarato che i manieristi italiani, e in particolare il Bronzino e il Pontormo, sono tra i tuoi artisti preferiti. Credi che sia proprio per il carattere di ricercatezza e artificialità delle forme, quindi di senso di scollamento con la realtà, a farteli sentire vicini? Credi che ci sia un parallelismo, come aveva teorizzato già Bonito Oliva, tra il periodo in cui stiamo vivendo e la fine del 500, quando si è sviluppata la pittura manierista?
Non dimenticherò mai lo shock che ho provato nel vedere il lavoro degli artisti manieristi italiani nelle mie prime lezioni di storia dell’arte. Fino ad allora avevamo studiato l’armonia e l’equilibrio di Raffaello, Tiziano, Leonardo Da Vinci, e subito dopo sono arrivati i ritratti e le scene inquietanti del Bronzino, del Pontormo, del Parmigianino.
Ne sono rimasta affascinata, e per la prima volta ho provato una connessione spirituale con la storia dell’arte che non avevo mai provato prima. Il loro lavoro esprimeva un’ansia e un antagonismo verso la natura che riconoscevo anche dentro di me.

 

Sandy Skoglund, Revenge of the Goldfish, 1981. © Sandy Skoglund. Courtesy Paci Contemporary Gallery.

 

In un’intervista una volta hai dichiarato che nel tuo lavoro cerchi sempre di “conciliare l’irrazionale e il razionale” e di “includere la follia nel contesto della sanità mentale”. È ancora così? Credi che sia ancora possibile conciliare i due aspetti, o l’irrazionale e la follia, nel coacervo di fake news, spettacolarizzazione del quotidiano, esagerazione isterizzazione mediatica, stanno prendendo definitivamente il sopravvento del mondo?
Io cerco sempre di includere la follia in un contesto di sanità mentale. Anche l’isteria mediatica che ci circonda è in realtà una parte importante del nostro paesaggio mentale collettivo. Dal momento in cui il mondo dei media esiste intorno a noi, penso sia salutare riconoscerlo. Possiamo interagire con esso senza esserne assorbiti. Anche se può essere fake, dal momento che esiste, è reale.

 

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