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Luca Tommasi

Quello che mi unisce a Stefano Arienti è il Lambro, il fiume che nasce nel triangolo lariano e che dopo aver attraversato Monza, mia città natale, disegna un gradevole parco a est di Milano dove ha dimora lo studio dell’artista. Il fiume procede poi la sua corsa unendosi al Po che, transitando nel Mantovano, dona fertilità a quelle terre coltivate dalla famiglia di Arienti e dove lui è nato nel 1961. Il Lambro attraversa terre operose per antonomasia come quelle della Brianza dove resiste il mito della casa-bottega tipica della realtà artigianale lombarda.

 

Stefano Arienti, Figure in un bosco (da Van Gogh), 1991, Ph Roberto Marossi

 

Anche Stefano Arienti vive in una casa-bottega e mi chiarisce che oggi ha ben due studi, uno a Milano e uno in via di allestimento nel Mantovano, ma nessuna abitazione. Operosità è un termine che si adatta magnificamente al lavoro di Arienti e il suo studio è una vera officina artistica. Mi riceve nel cortile di una caratteristica corte lombarda, quelle per intenderci raccontate da Nanni Svampa e Walter Valdi nelle loro canzoni popolari.

La vicinanza del cimitero di Lambrate non crea imbarazzo, anzi dona un tocco di essenzialità a una città frenetica come Milano e funge da utile memento mori contro le possibili esaltazioni di un mondo vanitoso come quello dell’arte. Si scusa per non potermi dare la mano perché è unta dall’utilizzo del pongo. Mi basta la parola pongo per farmi salire la pressione a mille, poiché sono sempre stato un fan sfegatato di quel tipo di opera e conoscendo l’estrema versatilità del suo lavoro non avevo garanzie che ne avrei visti. In verità ne ho posseduto uno tempo fa, ma poi ho ceduto alle avances di un collezionista e ancora oggi me ne pento.

 

Stefano Arienti, Bosco, 1988-1989, Ph Roberto Marossi
Stefano Arienti, Bosco, 1988-1989, Ph Roberto Marossi

 

Lacrime di coccodrillo, si sa. Vengo premiato dalla visione di tre splendide opere in via di definizione realizzate sulla base di manifesti di Van Gogh e Monet di cui l’artista si appropria accentuandone alcuni dettagli con la materia plastica. Le opere sono esposte nello studio in vista di un tour de force che lo porterà in meno di un mese ad allestire in tre spazi differenti: il 12 aprile una mostra di meridiane a Palazzo Borromeo a Milano, l’11 maggio nella ex sede del Sole 24 ore progettata da Renzo Piano, oggi di proprietà di Axa, l’installazione di un’opera permanente e il 13 maggio una personale a Villa Carlotta a Como.

Oltre ai ponghi scorgo alcuni puzzle altrettanto celebri della sua produzione come peraltro le sue famose turbine, vere e proprie sculture in carta che l’artista realizza appropriandosi di elenchi telefonici, libri di scuola, riviste patinate che manipola modellandole a guisa di rotori in cui, conoscendo le sue radici bucoliche, è difficile non scorgere riferimenti ai mulini a vento e alle ruote idrauliche.

 

Stefano Arienti, Vista di Vetheuil (da Monet), 1992, Ph Roberto Marossi
Stefano Arienti, Vista di Vetheuil (da Monet), 1992, Ph Roberto Marossi

 

Eppure Stefano Arienti non è solo l’artista delle turbine e dei ponghi, due tematiche che gli avrebbero facilmente garantito una comoda rendita data dalla loro gradevolezza estetica.

Stefano Arienti è uno sperimentatore a tutto campo e ciò gli deriva da una curiosità scientifica maturata nel suo percorso universitario alla facoltà di agraria, atipica per un artista di una generazione naturalmente formatasi nelle accademie.

Il disincanto, che lo porta a rifuggire lo sterile intellettualismo che ammanta molta arte contemporanea, gli deriva anche nell’essersi trovato a fare l’artista quasi per caso, sicuramente non avendolo posto fra gli obiettivi della sua gioventù, senza aver forzato per farsi accettare dalla comunità artistica ma inclusone naturalmente dato il favore riscontrato sin dalle sue prime opere della metà degli anni Ottanta. Basti pensare che nel 1991 esponeva già alla Biennale di Venezia.

Crescendo in un’epoca in cui la società del consumo e la civiltà dell’immagine erano così pervasive, Stefano Arienti ha trovato più stimolante operare su materiali d’uso quotidiano presenti nelle nostre abitazioni piuttosto che crearne di nuovi, proponendo un concetto di arte contemporanea che non voleva necessariamente rifondare il mondo ma semplicemente riutilizzarlo. Nella sua arte, l’interesse prevalente non è per l’immagine in quanto tale ma per l’utilizzo fisico che ne è stato fatto, sotto forma di oggetti come poster, cartoline o libri.

 

Stefano Arienti, Turbine antologia, 1989, Ph Tabozzi, Courtesy Museo 900 Milano

 

 

 

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