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Non è (solo) Biennale delle donne

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Alla Biennale, tra fluidità e nuovi nomadismi, il sistema binario è saltato

L’eterno dualismo uomo/donna è roba vecchia. Dimenticate le diatribe sulle desinenze e l’acribia femminista che ha sventolato la bandiera del suo orgoglio sulla declinazione rosa di direttrice, architetta, sindaca, arbitra o rettrice. Davanti a un mondo liquido, alla fluidità di genere e alle ultime teorie quel, il puntiglio di una lingua declinata cede il passo alla nuova logica dell’asterisco. Politically correct e marketing non sono mai andati così d’accordo. Tanto che anche la Biennale di Venezia fiuta da che parte tira il vento e si accoda.

“Non chiamatela la Biennale delle donne”, dice Cecilia Alemani. E non perché sia limitativo. Ma perché è demodé! Così la curatrice della cinquantanovesima Biennale d’Arte di Venezia arriccia il naso davanti a una definizione che fa troppo anni Ottanta (epoca in cui la grande Lea Vergine curò la prima e motivata rassegna sulle donne dell’avanguardia), preferendo sposare oggi i ben più attuali trend delle specie miste, dei soggetti nomadi, LGBTQ+ e modi alternativi di essere rispetto al tradizionale sistema binario.

Il titolo stesso della “sua” edizione della Biennale, “Il latte dei sogni”, cita un famoso libro di fiabe della pittrice britannica Leonora Carrington scelta come madre nobile di un affondo nelle pieghe postumane del corpo e delle sue metamorfosi, fino alle ibridazioni sperimentate da biologia e biotecnologia.

 

 

Biennale
Birgit Jürgenssen, Missing Limbs, 1974, Courtesy The Estate Birgit Jürgenssen, Vienna. La Biennale di Venezia 2022.

 

Se nel cuore del percorso della Biennale spiccano le evoluzioni simbio-genetiche del cosiddetto post-antropocentrismo, resta il fatto che su 213 nomi in arrivo da 58 paesi, l’80 per cento sono femminili, compresi i due Leoni d’Oro alla carriera assegnati pari merito alla tedesca Katharina Fritsch e alla cilena Cecilia Vicuña. Ecco allora le donne del futurismo, dalla profetessa lussuriosa Valentine de Saint-Point a Benedetta Cappa, moglie visionaria di Marinetti, dalla danzatrice aerodinamica Giannina Censi alla scultrice del plexiglas Regina Cassolo.

 

Alla Biennale, le donne come muse di un universo meticcio guidano una cordata di sogni surrealisti e utopie sociali

 

Ed ecco le ragazze ribelli del surrealismo, come la messicana Bridget Bate Tichenor o la scultrice Tecla Tofano, con le sue creature totemiche rubate a un cerimoniale iniziatico. Partendo dai ritmi frenetici di Josephine Baker, che scandalizzò Parigi coi suoi amori bisessuali e passò dalla danza tribale alle lotte per i diritti civili, si attraversa un secolo di storia fino alle anime meccaniche di Rebecca Horn dotate delle sue celebri protesi corporee per allungare come antenne dita o polpacci.

In mezzo scorrono le tendenze dei decenni, dalle accusatrici del consumismo pop come Barbara Kruger alle signore dell’eros crudele come Carol Rama, in un arcipelago di “capsule del tempo” costruite dalla curatrice della Biennale per scandire epoche, linguaggi affini e altri innesti tra letteratura, musica, cinema, scienza e via ibridando.

 

“Non chiamatela la Biennale delle donne”, dice Cecilia Alemani. E non perché sia limitativo. Ma perché è demodé!

 

Alla Biennale, le donne come muse di un universo meticcio guidano insomma una cordata di sogni surrealisti e utopie sociali, oltre ad aberrazioni poetiche come le ambiguità “umanimali”, un po’ animali e un po’ macchina, un po’ natura un po’ creatura, che si intrecciano ai Giardini e all’Arsenale restituendo l’eterogeneità di ricerche orfane di fanatismi o estremismi, ma frutto di un mondo senza gerarchie, affresco enciclopedico di un’umanità orizzontale, dove il genere è solo una minima parte nella costellazione complessa dei fattori che qualificano l’individuo. Anzi, meglio “l’essere”. Che è neutro e indeclinabile.

 

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