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Elena Pontiggia

Aldo Damioli (Milano 1952) è stato scoperto negli anni Ottanta da quel geniale talent scout che è stato ed è Corrado Levi. In quel periodo Damioli dipingeva dei singolari quadri dove si vedevano una serie di pizze, a volte pericolosamente in bilico l’una sull’altra, che non uscivano da moderni ristoranti, ma da un mondo preistorico, surreale. Il motivo pop si scontrava con un’atmosfera straniata e fuori dal tempo.

Torna la città ideale.
Vedute dal nuovo millennio

Perché iniziamo il nostro scritto sull’artista parlando di opere di quarant’anni fa? Perché vedendo i quadri pubblicati in queste pagine, che hanno per tema o per pretesto l’architettura, si potrebbe pensare che Aldo Damioli abbia una vocazione precisa di pittore-architetto. Non sarebbe un’affermazione sbagliata, anzi sarebbe giusta, addirittura ovvia, ma non sarebbe sufficiente. La sua pittura, in realtà, ha una tensione concettuale che lo porta a misurarsi con tanti temi, tra cui la figura umana gioca un ruolo non secondario. E se le città sono il suo soggetto più amato e famoso, il suo studio, il suo “antro del mago”, è colmo di schizzi, carte, quadri con motivi diversi che costituiscono un corpus pittorico fra i più variegati, e che solo in parte è stato esposto. Aspettiamoci dunque delle future sorprese.

Riprendiamo però a seguire il suo percorso. Nel suo successivo ciclo di opere, “Venezia New York”, Aldo Damioli ha dipinto la città di San Marco come se fosse Manhattan e Manhattan come se fosse la città di San Marco.

 

Aldo Damioli
Aldo Damioli, Venezia New York, 2016, acrilico su tela, cm 80×100.

 

È un’operazione concettuale, la sua, perché quelle città anfibie non nascono da una impressione o da una sensazione, ma da una invenzione mentale. Nella realtà non esistono. Sono semmai un moderno capriccio (come si definivano quelle composizioni fra Sei e Settecento che accostavano elementi architettonici reali e fantastici), dove il contemporaneo si confonde col millenario, e il regno di Wall Street con la Serenissima nel senso letterale del termine: cioè con un luogo ideale dove non si lavora, ma si va in giro in barca, si trascorre il tempo a giocare a golf o a cricket sui prati, ci si diverte a pattinare sul ghiaccio in un continuo loisir.

Al ciclo delle “Venezie New York” è seguito il ciclo delle “New York New York”, dove il “capriccio” ha lasciato posto a una costruzione più conseguente. Alla sovrapposizione fantastica di due città emblematiche, una americana e moderna per eccellenza, l’altra italiana e luogo per eccellenza di capolavori antichi, si è sostituita una città unica, anch’essa inventata, ma priva della illogicità precedente. Lungo gli anni, poi, nella pittura di Aldo Damioli le declinazioni delle città si sono moltiplicate: ha indagato capitali europee (Parigi, Milano) ed extraeuropee (Shangai); le ha dipinte in tempi e atmosfere diverse (la città di notte); ne ha percorso le strade fissandone passanti, dettagli, scorci, monumenti, opere d’arte.

 

Aldo Damioli, Venezia New York, 2016, acrilico su tela, cm 70×80.

 

Città, abbiamo detto e continuato a dire. Ma sono davvero città? Se guardiamo i suoi grattacieli così ordinatamente quadrettati da sembrare tavole pitagoriche, così stranamente uguali nelle spaziature, così giudiziosamente dotati di finestre ben distribuite, sembra che Aldo Damioli abbia guardato non solo a Canaletto e a Bellotto (come si sostiene sempre, e non senza ragione), ma anche al Mondrian dei Boogie-woogie.

In realtà le sue reminiscenze sono tante, dal lampione che fa pensare a Seurat alle chiome tondeggianti degli alberi che ricordano Donghi, ma il centro del suo lavoro non sono quelle suggestioni. Attraverso una forma chiusa, precisa, ben definita, Aldo Damioli trasforma la visione della città reale nella costruzione di una città ideale. Il suo intento è dare stile a ciò che non ha stile. E stile, nel suo caso, significa essenzialmente ordine e solidità. Cioè, per dirla con de Chirico, “quel magnifico senso di solidità e di equilibrio che caratterizza così severamente la pittura italiana”.

Perché l’impressione di solidità, ha scritto ancora de Chirico, “ci dona un benessere profondamente spirituale, una sorta di ritmo consolatore”. Di cui, oggi più che mai, abbiamo un grande bisogno.

 

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