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Arte e tecnologia

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Al di là del rapporto imprescindibile in epoca moderna tra arte e tecnologia, ricerca estetica e scientifica, sperimentazione formale e conoscenza fisica, in una linea continua che va dagli artisti del Rinascimento ai Costruttivisti russi e al Bauhaus, è un fatto appurato che praticamente una nuova generazione di artisti italiani affronta da anni il tema del futuro e dell’innovazione tecnica secondo nuove prospettive di coscienza.

 

“La tecnologia ha ripensato il nostro modo di approcciare il corpo umano, l’ambiente, la stessa psiche”.

 

La novità di linguaggio di questi artisti non è tanto una questione generazionale, ma anche di approccio verso l’opera, di processi progettuali, fisici e di obiettivi sperimentali, che vanno dall’ambito della fisica quantistica alla gravità, dalla cibernetica alla forza elettromagnetica, intesi non come pratiche di estetizzazione e umanizzazione della tecnologia, ma come evoluzione e abbandono di quelle pratiche e analisi del reale e dei processi della visione stessa dell’arte.

Artisti che al posto della materia, della forma, della composizione sostituiscono concetti come forze fisiche, equilibri dinamici, stati mentali.

 

Tecnologia
Fabio Pennacchia, Piano di evacuazione, 2020

 

In fondo si tratta di una ricerca che mira a sublimare quelli che da una parte sono gli elementi tradizionali di un’opera d’arte, soprattutto nel campo della scultura (peso e materia) come in quello della pittura (se pensiamo al piano pittorico inteso come campo di forze), dall’altra sono tentativi di trascendere il concetto di estetica innalzandolo a quello di “tecnologia del sé” (secondo una felice formula tratta da Foucault), ben oltre la semplice assonanza con la parola greca “techne” che si vuole tradurre con “arte”, anche se esistono delle differenze di fondo.

Di certo l’antico termine non può più tener conto di quanto prodotto dalla metà del XX secolo ad oggi.

Il campo di ricerca non sarà più ormai l’effetto retinico, semmai ottico; non più un confronto con la storia dell’arte o con il sistema dell’arte, bensì con i processi fondamentali del nostro essere, della nostra realtà a venire. Per questo verrebbe da dire che si tratta di una forma di realismo estrema, ben più di quella, illustrativa e mimetica, che ritrae eventi umani, cronache del nostro tempo, problemi sociali o politici, i quali in fondo non sono altro che effetti di forze più fondamentali.

 

Luca Pozzi, The messages of gravity, 2022

 

Se la fisica quantistica ha rivoluzionato il modo di pensare e concepire il cosmo e la mente, così come scienziati quali Galileo, Copernico, Newton o Einstein avevano rivoluzionato il modo di comprendere il mondo, la tecnologia d’altro canto ha ripensato il nostro modo di approcciare il corpo umano, l’ambiente, la stessa psiche, se pensiamo all’intelligenza artificiale, alle reti neurali, ai viaggi nello spazio, ai rivelatori di particelle.

Potremmo enucleare nel lavoro di Donato Piccolo (1976), Emmanuele De Ruvo (1983), Luca Pozzi (1983), Fabio Pennacchia (1983) un insieme di artisti che lavorano come veri e propri ricercatori, attenti alle nuove frontiere della scienza e della fisica, in grado di espandere attraverso la tecnologia (di tipo sia elementare che avanzato) il concetto stesso di arte.

Senza dubbio con precedenti in artisti di più vecchie generazioni quali Nam June Paik, Takis, Robert Barry o Maurizio Mochetti, ma privi ormai di quel senso di ironia, provocazione, defunzionalizzazione o desiderio di evadere dalle gabbie del sistema istituzionale e di mercato che ha contraddistinto quelle ricerche d’avanguardia.

Ovvio che non si tratta di un gruppo di artisti omogenei (a parte la stessa identica età per molti di loro), essendo le opere profondamente diverse per apparati e presupposti, però la linea comune è lo sfondo strettamente fisico su cui operano.

Movimenti, processi ed eventi reali, tecnologia come sostanza essenziale all’opera e non di contorno, abbandono della consistenza stessa dell’opera per performances che riguardano l’opera stessa, intesa come attuazione finale di un progetto e di una ricerca che si basa su presupposti scientifici.

Una forma d’arte quindi come forma di conoscenza, fatta per tentativi ed errori, in cui sia la parte tecnologica che quella progettuale sono perfettamente fuse e inscindibili.

Circuiti, monitor, magneti funzionanti, automi, fenomeni naturali riprodotti artificialmente, studio della cosmologia e dei buchi neri, ambienti virtuali, interazioni e fenomeni ottici, spazio e tempo, sono elementi costitutivi di un discorso che sembra soprattutto ampliare i limiti della coscienza o immettere la coscienza dentro l’opera, senza abbandonarsi a effetti di provocazione o di macchine celibi di artisti come Wim Delvoye o James Capper o ancora prima Gustav Metzger e Jean Tinguely.

 

Donato Piccolo, prorotype heart voyager, 2023, Foto courtesy Jordyn Turner

 

Non sono utopie disfunzionali ma ricerche che partono dalla concezione dell’arte come forma di conoscenza per arrivare al fenomeno come esperienza reale in grado di trascendere il concetto stesso di arte e di soggettività. Artisti quindi che traducono la materia concettuale in un vero e proprio materiale, suscettibile di essere messo alla prova sperimentalmente attraverso l’opera.

 

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