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Angelo Crespi

Impegno civile o facile moralismo?

Il concept della 59esima Biennale di Venezia proposto dalla direttrice Cecilia Alemani porta al centro dell’esposizione il tema che Vincenzo Trione, nel suo ultimo libro pubblicato per Einaudi, definisce “artivismo”.

Senza paura di esporsi al ridicolo, essendo nel trend giusto, la Alemani che vive comodamente tra Milano e New York inneggia alla cancel culture spiegando che “molte artiste e artisti contemporanei stanno immaginando una condizione postumana, mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano – in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio ‘uomo della ragione’ – come il centro dell’universo e come misura di tutte le cose”.

Aggiunge poi che la sua Biennale si interroga su “quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?”; e infine propende per “mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse, abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici…”.

 

“Da un lato infatti ci sono l’artivismo e gli “artivisti”, cioè gli artisti impegnati politicamente, civilmente, socialmente: ed è una moda che dilaga, tanto che nel contemporaneo quasi non si dà arte se non di questo tipo”

 

Non è chiaro cosa significhi in concreto tutto ciò se non una prona adesione al politicamente corretto, specialmente il riferimento in laguna a “esseri permeabili” lascia il tempo che trova, ma vale la pena circoscrivere il fenomeno.

Da un lato infatti ci sono l’artivismo e gli “artivisti”, cioè gli artisti impegnati politicamente, civilmente, socialmente: ed è una moda che dilaga, tanto che nel contemporaneo quasi non si dà arte se non di questo tipo.

Ne fa un’analisi precisa Trione il cui libro va compulsato con attenzione: di fatto gli artisti militanti badano soprattutto alla funzione e all’utilità della propria pratica, si concentrano sui contenuti e sulle caratteristiche performative delle informazioni trasmesse; con l’artivismo essi amano denunciare “emarginazioni, violenze, diseguaglianze, sofferenze, sfruttamenti, fame, miseria, migrazioni, crisi della globalizzazione, l’imminente apocalisse ecologica”.

Ma facendo ciò, con l’artivismo si rischiano demagogia, perbenismo, puritanesimo gauchiste, impegno prêt-à-porter, furba e strumentale militanza, facile moralismo; inoltre le loro opere spesso producono anestesia rispetto ai contenuti trattati, o viceversa peccano di una eccessiva estetizzazione, e quasi mai sopravvivono all’evento che le ha suscitate.

 

“Dall’altro lato, resistono gli artisti veri, sempre meno, quelli che Trione denomina “impolitici” ma che fanno politica pur stando distanti da ogni ideologia”

 

artivismo
Il murale realizzato dall’artista Banksy a Venezia nel 2019.

 

Dall’altro lato, resistono gli artisti veri, sempre meno, quelli che Trione denomina “impolitici” ma che fanno politica pur stando distanti da ogni ideologia, “non agiscono da lacchè del quotidiano”, né riducono il proprio lavoro “a una funzione meramente comunicativa o didattica”, sono “responsabili” eticamente ed esteticamente delle proprie opere, si affidano “a una conoscenza lirica, basata sulle sensazioni, sui sentimenti, sull’empatia, sull’incarnazione, sul contatto, sull’implicazione, sulla vicinanza dello sguardo”.

Di fatto, come già intuiva il grande Clement Greenberg, essi prospettano un’arte autosufficiente che trova le ragioni del proprio esistere all’interno di sé stessa e che nel suo estremo coincide con “l’arte per l’arte”.

Riassumendo: da una parte, pur nelle (tante) differenze, l’artivismo di “artivisti” vari alla Cattelan, Banksy, Ai Weiwei… dall’altra parte, la schiatta degli impolitici come Kiefer, Kentridge, Boltanski… in mezzo quelli che aderiscono senza remore alla società contemporanea tipo Jeff Koons, infine gli anacoreti, quelli che ancora credono e si fidano che la pittura-pittura possa salvare il mondo.

 

 

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