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Vittorio Sgarbi

Amiamo essere Italiani, perché è l’Italia la culla della civiltà

Nel mio ultimo spettacolo, Dante Giotto, racconto come sia nata l’arte moderna italiana, e con lei la poesia italiana, ovvero la nostra lingua. Entrambe nascono nel 1300, l’una con Giotto, l’altra con Dante. I due sono contemporanei, tanto che Dante, nell’XI canto del Purgatorio, celebra Giotto con queste parole: “Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è oscura”.

È dunque Dante a informarci che, già al suo tempo, Giotto aveva “il grido”, la fama, tanto da oscurare quella di Cimabue. Ma, in quel passo, Dante non si limita a dire che “ora ha Giotto il grido”, dunque che la fama di Giotto è già grande, e lo sarà sempre di più nei secoli a venire. Celebra anche, con un linguaggio critico conciso e straordinario, l’opera di un miniaturista emiliano, Franco Bolognese, le cui carte, a detta di Dante, “più ridon”, cioè risplendono, rispetto a quelle dei suoi contemporanei, come Oderisi da Gubbio, a cui Dante cede la parola nel suo incontro nel Purgatorio.

Perché effettivamente le carte, cioè le miniature, di Franco Bolognese splendono, come splende, anzi lampeggia di colori straordinari, di fantasia, di gioia la pittura emiliana del Trecento, e poi quella a venire. Vi cito questo passo del Purgatorio perché in queste parole di Dante c’è un’anticipazione di quella che sarà una delle più grandi intuizioni critiche di quello che io ho sempre considerato il mio maestro, Roberto Longhi, dal momento che studiai a Bologna con il suo allievo più dotato, e cioè Francesco Arcangeli.

Parlo di quell’intuizione, che si inverò nei primi anni Trenta, ed esattamente nel 1933, quando, in occasione del quarto centenario della morte dell’Ariosto, venne organizzata a Palazzo dei Diamanti la grande mostra sul Rinascimento Ferrarese.

Italia Sgarbi
Vittorio Sgarbi

Un Rinascimento che sarebbe apparso forse marginale, se la mostra non fosse stata accompagnata da uno dei libri più celebri di Roberto Longhi, L’Officina ferrarese, uno dei testi letterari di critica d’arte più belli del Novecento (che aprirà la strada a un’area padana che ha come punto di arrivo negli anni Cinquanta la riscoperta di Caravaggio), e nel quale il grande storico dell’arte “scopre” le opere del Rinascimento ferrarese, e tutte quelle relative a quell’area che va dalla Lombardia e dal Piemonte all’Emilia, e giù fino alla Romagna e al delta del Po.

Linea che per secoli era stata quasi dimenticata, certamente sottomessa all’idea che il Rinascimento italiano fosse da ascrivere unicamente a due fonti: il genio, la razionalità della pittura toscana, basata sul disegno, e la passione dell’arte veneta, basata sul colore. In mezzo, prima, non c’era niente.

C’era, invece, la grande fioritura dell’arte dei pittori ferraresi, Cosmè Tura, Francesco Del Cossa, Ercole De Roberti, a cui più tardi io avrei aggiunto Antonio de Crevalcore, ma non solo: anche tutti quei pittori nati nella zona della Padanìa (da non confondere con la ben più prosaica “Padania”), i pittori di Parma, Correggio e Parmigianino, i pittori di Cremona, Antonio e Vincenzo Campi, pittori di Lodi come Callisto Piazza, e tutto quello che è un mondo padano in cui passione, realtà, fantasia, vivacità sono indicazioni diverse dalla pittura di ragione legata al disegno del mondo toscano, così come dalla pittura di passione legata al colore del mondo veneziano.

La scoperta di quest’area geografica che parte dal Piemonte, da Martino Spanzotti e da Gaudenzio Ferrari, e che arriva fino ai pittori romagnoli e al delta del Po, è una rinascita che si deve interamente a Roberto Longhi.

E Dante, contemporaneo di Giotto, sembra  rilevarla in anticipo di molti secoli, con quel “più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese”: la definizione perfetta, per chi conosce la pittura del 300 a Bologna, fatta di colori meravigliosi. E qua, in queste diversificazioni di un’unica lingua madre, in questi “dialetti” della pittura, non monolitici e statici, ma variegati, mutevoli, pieni di declinazioni di un unico linguaggio, quello della pittura moderna che nasce con Giotto, risplende già l’Italia, l’Italia dei mille campanili e delle mille espressioni vitali di un’unica radice comune.

La radice comune è in Giotto, e in Dante. Perché è la lingua italiana di Dante e la lingua pittorica di Giotto nascono e procedono insieme. Addirittura Giotto è talmente emozionante che possiamo dire che la sua pittura sia poesia, perché esprime sentimenti, e che la parola di Dante sia pittura, perché descrive situazioni, personaggi, emozioni. I destini di questi due personaggi si incrociano, ed entrambi sono fondatori di quell’Italia che nei musei all’estero è definita ben prima del 1861, quando l’Italia diverrà effettivamente Stato e Nazione: quando andiamo nelle sale dei musei, e vediamo Lorenzetti, Masaccio, Piero della Francesca, Leonardo, sul cartiglio che indica la sala c’è scritto Italian school, la scuola italiana.

Eccola, l’Italia: è l’Italia del Rinascimento, e non quella del Risorgimento. Perché il vero Risorgimento italiano è il Rinascimento, quel Rinascimento che parte con Giotto, che parla la lingua dell’uomo, perché esprime sentimenti ed emozioni, contro un’arte bizantina che esprimeva solo devozione. Dante è dunque già un pittore moderno, perché la pittura moderna significa che parla dell’uomo e non di Dio, parla di sentimenti, di emozioni, di vita.

Per questo, Dante aprirà la strada a Masaccio e Piero della Francesca. E, dall’altra parte, abbiamo Dante, che parla, che fonda potremmo dire la lingua italiana. Ed è talmente speciale avere due fondatori dell’Italia come Dante e Giotto, che non possiamo non pensare alla cosa in termini politici e di responsabilità, perché noi dobbiamo pensare che l’Italia non è una paese come gli altri, l’Italia è il luogo del Grand Tour, il luogo dove, da ogni parte dell’Europa, si veniva per vedere una bellezza che non c’è altrove, che è bellezza del paesaggio, delle coste, della natura, delle colline, delle montagne; per vedere questa nostra penisola che sta dentro il Mediterraneo, in una condizione di assoluto privilegio, più della Grecia, più della Spagna; e che ha bellezza naturale e bellezza di monumenti, una quantità senza fine di monumenti, di architetture, di sculture, di pitture, che mettono soggezione e ispirano meraviglia a guardarli. Si viene in Italia per questo, da ogni parte del mondo (non a caso il turismo viene dal Grand Tour), si viene perché questo paese è il paradiso dell’Umanità.

Per questo, io sono italiano e non vorrei essere altro che italiano e cristiano, come sono: non per via della fede, che è una questione intima e privata, ma perché nessun altro paese, nessun’altra civiltà ha creato, così come la nostra, un concentrato di bellezza ineguagliabile, attraverso la natura, l’arte, la bellezza, la cultura.

 

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