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Giovanna Lacedra

Venere dal Paleolitico a Tik Tok

Belle per forza, per necessità, per esistere. Oggi noi donne ci obblighiamo alla perfezione. Ci vogliamo impeccabili, di una bellezza patinata, senza età, a volte anoressica, a volte di plastica, priva di difetti e corrotta dai filtri dello smartphone. Una bellezza che talvolta diventa dipendenza e che, nel bisogno disperato di aderire a un canone, genera spesso disturbi della nutrizione o porta alcune di noi – credo le più fragili – a spendere cifre stellari per interventi di chirurgia estetica. Ma che cos’è un canone di bellezza, chi o cosa lo stabilisce e quanto può durare?

Un canone è un ideale estetico che rispecchia il contesto sociale e culturale all’interno del quale matura e si consolida, riflettendone credenze, costumi, visioni e superstizioni. Il concetto di bellezza è mutato nel tempo e non è sempre stato sinonimo di perfezione. Il modo in cui gli artisti hanno rappresentato il corpo femminile in manufatti, statuette votive, dipinti, sculture e fotografie, ci svela molto su come la donna sia stata vista nel corso dei secoli.

 

Venere
Tiziano, Venere di Urbino, olio su tela, 1538, Galleria degli Uffizi, Firenze.

 

Facciamo un viaggio a ritroso, attraversando i millenni, e catapultiamoci nell’Europa del Paleolitico Superiore, tra il 30.000 e il 10.000 a.C. A quel tempo la donna era considerata ultraterrena. Il suo eccezionale potere era quello di dare la vita. Nell’istante in cui partoriva, trascendeva la dimensione umana. La vagina si dilatava e da quella feritoia sbocciava un nuovo essere.

Per questa ragione il suo corpo gravido e straripante fu posto al centro di un culto, quello del sacro femminino. Statuette di piccolo formato come quelle di Lespugue, Willendorf o Savignano – scolpite nella pietra calcarea, nell’avorio di mammuth o nelle ossa di animali cacciati e divorati – venivano conficcate nella terra o tra le pareti delle grotte, perché auspicassero fertilità.

Le Veneri steatopigie (da “grasso” e “adipe”) non hanno volto, sovente neppure mani e piedi. Ostentano soltanto generosi attributi femminili: seni floridi e cadenti, ventri turgidi, vulve tumide e cosce piene. Non sono che madri. Grandi Madri. Dee Madri. Grasse e perfette.

Il canone cambia, però, quando Venere diventa la dea dell’eros e della bellezza. Il corpo si armonizza e proporziona, le spalle si fanno spioventi, i seni diventano piccoli, sodi e distanti e appena sopra la zona pubica si crea una lieve convessità adiposa denominata proprio “monte di Venere”. La dea ha ora un volto dai delicati lineamenti, i suoi lunghi capelli vengono raccolti in ciocche corpose dietro la nuca. Esiodo, nella Teogonia, narra della sua nascita dalla spuma del mare in cui Kronos gettò i genitali recisi del padre Urano.

Aphrodíte significa letteralmente “colei che è nata dalla schiuma” ed è questo il nome che le fu dato dagli antichi Greci. Prassitele, celebre scultore ateniese di età Tardo Classica, la scolpì nuda per la prima volta. L’Afrodite Cnidia – realizzata intorno al 350 a.C. per il naos dell’omonimo tempio – è la prima creatura finalmente libera dal lungo peplo che, sino ad allora, aveva fasciato i corpi delle rigide korai arcaiche. Ritratta nell’attimo che precede – o segue – il bagno rituale, la dea porta la mano destra davanti al pube, nel tentativo di nasconderlo.

È imbarazzata e questo suo gesto genererà l’iconografia ellenistico-latina della Venus Pudica. Nei celebri esempi della Venere Medicea conservata agli Uffizi o di quella romana ubicata presso i Musei Capitolini, la ritroviamo infatti stante, con le spalle leggermente ricurve in segno di ulteriore chiusura, colta nell’atto di coprirsi la vagina con la mano sinistra e i seni con il braccio destro. Dalla vulva incisa della Veneri Preistoriche a quella celata delle Veneri Classiche, il canone estetico è mutato sensibilmente. E così si è replicato nel tempo.

Lo ritroveremo nella rinascimentale Nascita Venere di Sandro Botticelli e ancora nella neoclassica Venere Italica di Antonio Canova. In entrambe le opere – un dipinto su tela e una statua marmorea – la dea è mossa da un impeto di timidezza e tenta di coprire le proprie pudenda. In particolare, quella botticelliana incarna l’ideale neoplatonico della Venus Urania, dea dell’amore puro, celeste e spirituale, e parimenti quello della Venus Anadyomene, ossia nascente dal mare e nell’atto di riordinarsi i capelli inumiditi dall’acqua.

 

Venere
Antonio Canova, Venere Italica, 1812, marmo di Carrara, Galleria Palatina di Firenze.

 

Ad un certo punto, però, la compostezza lascia il posto alla sensualità. Accade nell’opera più celebre di Tiziano Vecellio: La Venere di Urbino. Datata 1534, la tela ci mostra un’avvenente creatura semisdraiata su bianche lenzuola, e colta nell’atto di esibire la propria nudità. Il suo sguardo è diretto, ammicca ed incanta, e di quei morbidi capelli pare quasi sentirne il profumo. La mano sinistra è adagiata sul pube, ma questa volta non per l’imbarazzo.

Il gesto, più che virtuoso, appare erotico e invitante, e anche alcuni dettagli come l’anello al mignolo, il bracciale d’oro, l’orecchino di perla, fanno di lei una donna terrena più che una dea, o una Venus Pandemia, protettrice dell’amore carnale. Il cagnolino acciambellato ai suoi piedi, però, è lì per ricordarle una cosa soltanto, ossia che l’amore coniugale è fatto sì di erotismo, ma vive soprattutto di fedeltà. In fondo alla stanza due fantesche frugano in un baule alla ricerca degli abiti con cui vestirla, ma Venere non pare aver troppa voglia di occultare la sua carnalità.

Trascorre qualche secolo e ad un certo punto la dea, già premiata da Paride per la sua bellezza, si ritrova nuda, con in mano il pomo della vittoria, di fronte ad un titanico cumulo di stracci. Improvvisamente non ha più ancelle e appare come una qualsiasi donna mortale che, aprendo il proprio armadio, si domandi “e oggi cosa mi metto?”. Siamo nel 1967 e Michelangelo Pistoletto – esponente dell’Arte Povera – ci pone di fronte a un nuovo canone: l’estetica dell’usa e getta.

L’era del consumismo è anche quella in cui dilagano imprevedibili patologie. Malattie che mangiano il corpo da dentro, mettendo in ginocchio qualunque canone di bellezza. Sul finire degli anni Ottanta Hannah Wilke, audace performer americana che negli anni Settanta aveva cavalcato l’onda del Femminismo, scopre di avere un tumore. Un linfoma. La malattia la devasta. La trasforma. La deforma.

E lei cosa fa? Usa il suo corpo, ancora una volta, per comunicare. Lo usa per raccontare il graduale e inevitabile disfacimento che un cancro comporta. Intra-Venus è una serie fotografica che documenta la trasformazione di un corpo sottoposto a interventi invasivi e massacranti chemioterapie, è un’opera autobiografica che testimonia la reale caducità della bellezza, della femminilità e dell’armonia.

Hannah ci porta dentro al suo corpo, ci porta nel corpo di una Venere distrutta, ferita, ricucita, bendata, dilatata, calva e coraggiosa. E si racconta fino all’ultimo. Fino alla morte, avvenuta nel 1993.

Quando il male però non ci tocca, l’ossessione di una eterna bellezza può farci perdere la bussola. È quello che sta accadendo a un numero sempre più crescente di donne ed è ciò che negli anni Novanta mise in scena Orlan, body artist francese e madre dell’Arte Carnale, la quale si sottopose a numerosi interventi di chirurgia estetica per assomigliare a icone femminili quali la Venere del Botticelli o la Gioconda di Leonardo, ma che valicando i limiti finì per azzerare il concetto stesso di bellezza.

E allora c’è da chiedersi, oggi la bellezza cos’è?

Oggi siamo una Venere se a cinquant’anni abbiamo seni sferici, bocche carnose e natiche di porcellana; siamo una Venere se ci lasciamo piallare da trattamenti di ogni tipo, pur di dimenticare rughe e bucce d’arancia. Siamo una Venere sui nostri tacchi a spillo. Siamo le Veneri dal ventre piatto e dalla tinta perfetta.

Oggi la dea della bellezza vive dei like che gli offerenti recano al tempio del suo account. E quelle che un tempo erano fascinose narrazioni mitologiche sono ora effimere storie sulla home di un social. Oggi basta la bugia di una app e la bravura di un chirurgo plastico per consacrarci all’Olimpo delle vacuità. Oggi siamo le Veneri di Instagram e Tik Tok.

 

 

 

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