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Rodin e Claudel, l’amore scolpito

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Auguste e Camille tra dramma e passione

Lui si sdraia su di lei. Supino. E distende le braccia per toccarla. Lei è prona e pare fluttuare su una nuvola. Solleva il busto disegnando un’onda, e pare tutta un arco teso verso un’impossibile fuga. Si porta le mani dietro la nuca e ruota il capo verso destra. Lui vorrebbe annodarsi al suo corpo. Lei, invece, preferirebbe sgusciare via. Tutto è difficile. Afferrarla è difficile. Fermarla è difficile. Una sola mano, la sinistra, riesce a sfiorarle un seno.

Ma non c’è morsa, non c’è presa, non c’è abbraccio. I due corpi galleggiano, schiena contro schiena, in una dimensione fluida ed instabile. La bocca dell’uomo è schiusa, come in un sospiro di incanto e fatica. Persino con gli occhi tenta di catturarla, ma lei non può voltarsi. E non esiste sguardo che possano scambiarsi, nessuno sguardo con cui possano parlarsi. Con nessuno sguardo potrà mai chiederle di non andarsene.

Lo sforzo dell’uomo è condensato in molteplici tensioni muscolari, che vanno dai polpacci ai tricipiti. Disperatamente tenta di allacciarsi a quel corpo serpeggiante ma sente che qualcosa, una corrente misteriosa, la sta trascinando via. E allora preme, preme invano le scapole contro le sue natiche.

Lo fa per sentire che lei è ancora lì, ed è di carne, è plasmata nella carne, è fatta di morbide colline e pulsante desiderio. Lo fa per sentire che quel corpo è ancora suo, ancora gli appartiene.

Lo fa per sentirla ancora vicina e presente. Ancora materia e passione. Getta il capo all’indietro, lasciando che si incastoni nella valle aperta tra i suoi glutei e la schiena. I piedi di lei gli sfiorano le ginocchia. Lui è un fiume di paura in piena e il vuoto tra le sue gambe diventa un alveo rassicurante.

È così che Rodin, in Fugit Amor, ferma nel marmo ciò che più lo tormenta: perdere Camille.

Siamo nel 1887, nella Parigi dei Salon e delle Esposizioni Universali. La relazione tra uno degli scultori più rivoluzionari del secolo e la sua allieva geniale dura ormai da qualche anno. Ma nessuno deve sapere. Auguste e Camille si amano di nascosto. E si desiderano, si annusano, si studiano, si aiutano, competono, si sfidano, si attraversano e si separano.

Il loro è un rapporto burrascoso che si consuma su un terreno impervio, quello dell’arte. Sono due scultori, due personalità ostinate e spigolose. Si bramano e si temono. Rodin è per lei un maestro, una sorgente, una quercia sotto la cui ombra, però, non vuole accontentarsi di vivere.

 

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Auguste Rodin, Fugit Amor, 1887, marmo, Musée Rodin, Parigi.

 

Perché essere considerata la sua allieva, la costola del grande Rodin, non la porterebbe verso se stessa e non le permetterebbe di affermarsi come artista con una propria cifra stilistica ed una propria personalità. Camille è una combattente. Si è giocata tutto per seguire la sua vocazione: il sostegno della famiglia, l’amore della madre, persino la reputazione.

Si è giocata ogni certezza, perché essere donna nel diciannovesimo secolo significa tante cose, ma soprattutto significa non poter essere un’artista allo stesso modo in cui è dato esserlo ad un uomo. Essere donna nel diciannovesimo secolo significa non poter scolpire in pantaloni, significa plasmare l’argilla indossando lunghe gonne ingombranti; essere donna nel diciannovesimo secolo significa non potersi iscrivere all’École des Beaux Art.

Camille è pazza del suo maestro. Auguste Rodin è il suo nume, la sua guida, è la carne del suo desiderio. Quando entra nel suo atelier ha 19 anni. Lui, invece, ne ha 43 ed è da tempo legato a Rose, la donna che gli darà un figlio. Tra loro nasce una passione che diventa dipendenza. Lui perde la testa e le promette che lascerà la sua compagna per sposarla. Ma gli anni passano e questo non accade mai.

La pazienza di Camille comincia a vacillare e Rodin inizia a temerne l’abbandono. Soltanto un anno prima di scolpire Fugit Amor le scrive: “Abbi pietà, crudele. Non ne posso più, non posso più passare un giorno senza vederti. Se no, l’atroce follia. È finita, non lavoro più, divinità malefica, e tuttavia ti amo furiosamente.” Rodin dice di amarla furiosamente ma non intende lasciare Rose e ad un certo punto, quando rimane incinta, le chiede persino di abortire.

La rottura, a questo punto, è inevitabile. Rodin sceglie l’altra e tutto va in frantumi. Camille subisce l’abbandono e prima di perdere tutto, nel 1898, plasma la sua sofferenza in un gruppo scultoreo inequivocabilmente autobiografico: L’âge mûr. Una fanciulla, nuda e coi capelli raccolti, cade sulle ginocchia protendendosi in avanti e allunga le braccia per afferrare la mano dell’uomo che da lei si allontana.

 

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Camille Claudel, L’Âge mûr, 1902, bronzo, Musée Rodin, Parigi.

 

Nel suo sguardo alberga una preghiera disperata e il suo corpo è tutto una supplica a cui lui volge le spalle. Anche in questo caso non esiste sguardo con cui possano parlarsi, perché è lui a decidere di non voltarsi. Non si volta e, anzi, incede, accompagnato da una donna avvolta in un ampio panneggio che sembra parlargli sommessamente.

In quella donna è ravvisabile l’immagine di Rose che sta trascinando via August dalla sua vita. A seguito di questa separazione Camille crollerà del tutto e suo fratello, il poeta Paul Claudel, una volta morto il loro padre – unico sostenitore della scultrice – deciderà, insieme alla madre, di internarla in manicomio. Un manicomio dal quale la donna invierà loro numerose lettere implorandoli di riportarla a casa, e nel quale morirà, di rassegnazione e denutrizione, ben trent’anni dopo.

E proprio Paul, lo stesso Paul che mai ascoltò le sue preghiere, con queste parole descrisse L’Age mûr: “Mia sorella Camille, implorante, umiliata, in ginocchio, lei così superba, così orgogliosa mentre ciò che si allontana dalla sua persona, in questo preciso momento, proprio sotto i vostri occhi, è la sua anima”.

 

 

 

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