Nel panorama dell’arte contemporanea europea, il lavoro di Driant Zeneli si distingue per la capacità di coniugare la dimensione utopica con una profonda consapevolezza politica.
La sua pratica artistica, sospesa tra narrazione simbolica e linguaggi dell’immagine in movimento, elabora costantemente forme di resistenza al potere e alla razionalità funzionale. Ne è un esempio significativo The Six Seasons of the White Peacock, un ambizioso progetto complesso che intreccia geografie e collaborazioni internazionali, tra le quali spiccano il Museo Castromediano di Lecce e la Regione Puglia, sostenuto dall’Italian Council (programma della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura), curato da Laura Lamonea e sviluppato in collaborazione con partner culturali chiave in Bangladesh, Albania, Grecia e Italia.
In quest’opera, Zeneli mette in scena un’allegoria potente e struggente: un pavone bianco incapace di volare e una lacrima irraggiungibile diventano i protagonisti di una favola mitica che interroga il desiderio, il fallimento, il sacrificio e la natura stessa del potere. Ed ecco come nasce la seguente intervista, spinta dal desiderio di indagare le radici concettuali e formali del progetto, mettendo in luce la visione poetica e politica di un artista che continua a esplorare – con coerenza e coraggio – i margini del possibile, trasformando l’impossibilità in un gesto radicale.
Antonella Buttazzo: Il progetto nasce da una rete internazionale complessa che collega Italia, Bangladesh, Albania e Grecia. Al di là degli aspetti organizzativi, come questo dialogo costante tra contesti culturali così diversi e la collaborazione con realtà come la Samdani Art Foundation o il Museo di Atene nutre o magari sfida la tua visione poetica e politica all’interno di The Six Seasons of the White Peacock?
Driant Zeneli: Mi sono sempre chiesto quante lingue possa parlare un’opera d’arte. Come essa si trasformi viaggiando in contesti diversi? Il fatto che l’opera prende spunto dal parlamento del Bangladesh, connessa a un contesto sociopolitico, fino ad arrivare alla lontana cultura del Barocco europeo occidentale, mi rende ancor più curioso di narrare una storia intrecciata in diversi livelli.
Quella di un pavone bianco che non può volare, obbligato e vivere circondato da un fiume che non gli permette di fuggire dal suo regno, osservato dalle sei stagioni che lo custodiscono, la sua rabia lo porta verso un tentativo, lo porta alla perdita del suo regno.
Spesso mi rifaccio al mondo animale rappresentato nelle fiabe classiche come quelle di La Fontaine, tuttavia le favole che co-creo non sono ambientate solo in boschi o fiumi, bensì in architetture costruite dall’uomo, dove alla fine non c’è morale, solo un epilogo curioso.
A.B. Hai rivelato che la figura acquatica centrale si è trasformata, nel corso della lavorazione e della co-creazione con giovani artisti bengalesi, da goccia a lacrima. Questo cambiamento aggiunge una carica emotiva e simbolica fortissima. Puoi approfondire il significato di questa lacrima nell’allegoria dell’amore impossibile con il pavone bianco? Quali risonanze culturali, personali o politiche ti hanno guidato verso questa immagine specifica?
D.Z. C’è un momento cruciale nel film, quando il pavone bianco inizia a piangere dalla rabbia, e per la prima volta prova un’emozione estrema: la disperazione, che lo porta alla lacrima. Una lacrima della quale si innamora e fa di tutto per proteggerla, chiedendo aiuto alle sei stagioni.
Ero interessato a esplorare i concetti del potere, dell’amore e della caduta, elementi che si combinano tra loro, come il momento del “cadere” nell’amore e il momento del crollo di un potere. Per completare questa visione, ho sentito il bisogno di creare un terzo livello, un terzo personaggio: è così che è nata la storia di un pavone che si innamora di una goccia d’acqua. Attraverso l’analisi delle tematiche dell’innamoramento e dell’impossibilità, il mio lavoro sta mutando in qualcos’altro grazie alla collaborazione con cinque giovani artisti bengalesi: Md. Tasnimul Izaz Bhuiyan, Pulak K. Sarkar, Rafi Nur Hamid, Sondip Roy e Sumaiya Sultana.

A.B. Il Parlamento di Kahn a Dacca è uno sfondo potente, carico di storia e segnato anche da eventi recenti. Concentrandoci sull’aspetto concettuale, come interagisce la monumentalità e la specifica utopia modernista di Kahn con la fragilità del pavone, la sua impossibilità di volare e la natura struggente della favola che stai narrando? Che tipo di tensione o dialogo si crea tra l’architettura e i temi dell’opera?
D.Z. Quando fui invitato da Diana Campbell a visitare il Parlamento progettato da Louis Kahn a Dhaka, ricordo che quella stessa sera ebbi una visione: un pavone bianco, cyborg, camminava solitario e malinconico attraverso gli spazi interni dell’edificio. Le venature del marmo bianco, delicatamente integrate nel cemento armato, mi sembravano le piume di quell’animale, intrappolate in un corpo architettonico monumentale. In questa opera, il Parlamento non è solo un edificio: è un personaggio. Come spesso accade nel mio lavoro, l’architettura diventa un pretesto, uno sfondo abitato da presenze immaginarie, un set per la costruzione di una favola
A.B. La scelta di ispirarsi a Vivaldi e al Barocco per la colonna sonora crea un ponte, e forse una tensione interessante con le sei stagioni bengalesi. Puoi raccontarci qualcosa di più del processo creativo con il Conservatorio di Lecce e il controtenore Pasquale Auricchio? Come state lavorando per tradurre questa idea in un’esperienza sonora che dialoghi con le immagini e il racconto cantato?
D.Z. Sono un appassionato di musica barocca. La musica, per me, è un’architettura invisibile che ci trasforma e costruisce nuovi spazi di narrazione.
Le forme dell’architettura di Louis Kahn, a mio avviso, richiamano le stesse strutture e profondità della musica barocca: spazi complessi, rigorosi ma capaci di evocare emozioni profonde. Questa connessione mi è apparsa naturale, quasi inevitabile. La collaborazione con Pasquale Auricchio è nata da un incontro che mi ha colpito profondamente. Lo ascoltai per la prima volta in concerto a Tirana, e subito dopo gli proposi di lavorare insieme a un nuovo film che stavo iniziando a sviluppare. Così ha avuto inizio il nostro percorso condiviso. Con il Conservatorio di Lecce, daremo forma a sei atti musicali, ciascuno dedicato a una delle sei stagioni del Bangladesh. Un viaggio sonoro e visivo che intreccia paesaggio, emozione e memoria.
A.B. Un filo rosso della tua ricerca è l’idea del fallimento, inteso non come semplice sconfitta, ma come gesto radicale, spazio di resistenza o possibilità alternativa. Come si manifesta questa concezione specificamente in The Six Seasons of the White Peacock? È nell’incapacità di volare del pavone, nel suo desiderio irrealizzabile, nella “caduta” del potere che evochi, o nel rapporto stesso con la lacrima?
D.Z. Sono attratto dalle forme che si contrappongono tra loro.
Mi affascina stare nel mezzo, come tra due calamite che si attraggono con la forza della gravità.
Non ho mai davvero analizzato il perché, ma posso affermare che essere cresciuto in un paese come l’Albania – dove l’utopia e la distopia, i paradossi e le contraddizioni si formano come nuvole nei temporali estivi – rende impossibile sfuggire a certi stimoli e sfide quotidiane. Questa tensione è diventata parte di me.
Per questo motivo, gran parte delle mie opere ruota attorno al concetto di gravità e caduta.
Il potere, nelle sue molteplici forme, è spesso presente: come forza dominante, come attrazione inevitabile, come caduta annunciata.

A.B. L’opera entrerà a far parte della collezione del Museo Civico di Castelbuono, rafforzando un ponte ideale tra ‘sud’ geografici e culturali diversi. Cosa rappresenta per te questa destinazione finale in Sicilia, e quale dialogo speri che l’opera possa instaurare in quel contesto specifico?
D.Z. Il viaggio di quest’opera ha avuto inizio grazie alla Samdani Art Foundation a Dhaka e al Museo Castromediano di Lecce.
È il frutto di una ricerca durata più di due anni, resa possibile grazie al sostegno dell’Italian Council. Alla fine, sono felice che quest’opera — co-creata insieme ad altri artisti, con il supporto di tante persone e istituzioni — entri a far parte di un’importante istituzione pubblica, dove la partecipazione e la co-creazione sono parte integrante della filosofia del museo, diretto da Laura Barreca.
A.B. Hai accennato all’importanza della co-creazione con cinque giovani artisti bengalesi, un processo che ha portato anche alla trasformazione della goccia in lacrima. Puoi condividere qualcosa di più su come questo scambio diretto e questa collaborazione stanno influenzando non solo i dettagli narrativi, ma anche il tono generale, la prospettiva o il messaggio della favola?
D.Z. Non sono interessato ai messaggi che spesso scivolano verso un tono moralista, che cerco sempre di evitare. Ciò che mi interessa è il viaggio come forma di scoperta, soprattutto quando conduce verso l’inaspettato. Questo viaggio, spesso, si condivide con altri e altre, e insieme si costruisce la narrazione dell’opera. In questo caso, la collaborazione con cinque artisti locali è stata fondamentale. Ognuno di noi ha assunto anche un ruolo tecnico — costumista, scenografo, sceneggiatore, etc. — dando vita a un processo condiviso, dove la creazione è stata anche un atto collettivo. Abbiamo lavorato immersi in un contesto segnato da eventi profondi: le trasformazioni radicali avvenute a Dhaka nel settembre 2024, durante le quali, in seguito a lunghe proteste, hanno perso la vita più di 300 studenti. Per questo, questa storia appartiene a tutti coloro che hanno creduto in un futuro migliore, cercando di superare i limiti sociopolitici — anche a costo della propria vita.
Driant Zeneli, maggio ’25
Driant Zeneli
The Six Seasons of the White Peacock
Progetto internazionale tra i vincitori della 13ª ed. di Italian Council
www.driantzeneli.com
@driantzeneli
Immagine di copertina: Backstage film production, The six seasons of the White Peacock, Driant Zeneli, 2025 – Courtesy l’artista
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