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Alessandra Redaelli

Riusciamo a immaginarci il board del Prado mentre cerca, durante la pandemia (e la primavera passata la Spagna non ha certo avuto nulla da ridere), di pianificare il programma del 2020? “Cosa mettiamo a ottobre?”. “Be’, oddio, a ottobre mi sa che siamo in piena seconda ondata: mettiamo qualcosa che tanto nessuno verrebbe a vedere, così ci togliamo il pensiero…”. Sarà davvero nata così Invitadas, mostra dal titolo quantomeno insultante in programma al museo più importante di Spagna fino al 14 marzo del 2021? No, dai, non siamo maligni.

Eppure, dal momento in cui si è diffusa la notizia, la mostra è stata bersagliata di battute. A volte, si sa, la toppa è peggio del buco. E il buco di cui stiamo parlando è una voragine: il ruolo della donna nell’arte nel XIX secolo. Il secolo, dunque, in cui le ragazze dell’arte si dividono tra aspiranti artiste che non hanno modo migliore per impratichirsi che diventare modelle e sbirciare i pittori che le stanno ritraendo, per poi diventare più brave di molti di loro (Suzanne Valadon), e fanciulle di buona famiglia che si accontentano di stare all’ombra di un mito a cui loro hanno insegnato parecchio (Berthe Morisot) e che magari finiscono pure in manicomio (Camille Claudel).

Già, la mostra nasce per chiedere scusa – terreno di per sé piuttosto insidioso – alle donne artiste troppo spesso emarginate. E quel titolo urticante (sì, tesoro, sei stata invitata anche tu: sei contenta?) è seguito da un sottotitolo davvero succulento: “Frammenti su donne, ideologia e arti plastiche in Spagna, 1833-1931”. Roba da far scappare anche il visitatore più motivato, tipo quello che cerca riparo in un pomeriggio di pioggia.

 

donne
Marceliano Santa María Sedano, El precio de una madre, a mejorar la raza, 1893, olio su tela. Courtesy Museo del Prado, Madrid.

 

L’intento è buono, non si discute (e poi stiamo attente che qui, se ci scappa una parola di troppo, ci relegano di nuovo nei sotterranei a fare la muffa), ma il modo in cui si sono mossi appare quantomeno goffo. Fa quasi tenerezza il curatore del progetto, Carlos G. Navarro, quando con il suo faccione rassicurante racconta, nella presentazione virtuale, come il titolo sia stato scelto non perché le donne siano solo delle comprimarie, ma perché quello era il ruolo a cui erano state destinate all’epoca (e cercare un altro titolo per poi spiegare il concetto nel testo introduttivo, no?). E poi ecco la mostra: centotrentaquattro opere di cui… sessanta firmate da artiste donne. Che cos’è, uno scherzo? No, sciocchine, è che ci stanno spiegando. Ovvio. Ci stanno spiegando come andavano le cose, capito?

Quindi più di metà della mostra (guarda caso quella che nel percorso viene prima, quando ancora il calo di zuccheri non ci ha abbattuti) è dedicata ad artisti uomini. E siccome loro erano proprio dei cattivoni, spesso mostravano la donna come un oggetto sessuale o al massimo – o al minimo – una brava mogliettina che sta a casa a badare ai pargoli. Dopo una serie estenuante di fanciulle nude ammiccanti, madri di famiglia che tengono stretto al petto un pupo e qualche scena di genere si arriva, stremati, alle opere delle artiste donne. Che, dispiace dirlo, non sono un granché neppure quelle. Non c’è da sorprendersi dunque che otto tra studiose e accademiche spagnole abbiano firmato una lettera aperta al Ministero della Cultura spagnolo, accusando il museo di sessismo (tra l’altro, con tutta la simpatia che mi suscita la barbona nera di Carlos G. Navarro, una curatrice donna non ce l’avevano in tutta la Spagna, giusto così, per salvare le apparenze?).

Non si capisce se siano sfortunati, ingenui o peggio, ma hanno pure dovuto togliere un quadro, perché l’avevano appeso come Scene di famiglia di una signora, Concepciòn Mejìa del Salvador, e invece si trattava di La marcia del soldato di Adolfo Sànchez Megìas (e meno male che non hanno fatto l’errore contrario, poveri loro!). Era andata molto meglio nel 2019. Una mostra pulita pulita su Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana, l’intento delle scuse c’era anche lì (hanno proprio il vizio), ma era più velato. Un sottotitolo semplice, “Storia di due pittrici” e pure una curatrice: Leticia Ruiz.

 

 

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