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Damien Hirst? Non è un vero Bad Boy, ama l’arte

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Ve lo ricordate il signore delle mosche? Quello che sbatteva gli squali in formaldeide e li vendeva a 12 milioni di dollari, scatenando lo sdegno generale? Ma sì, certo. Lui. Lo stesso che tagliuzzava i bovini per il lungo per farci passeggiare tra i loro visceri come tra due quinte. Oppure che di quei bovini prendeva la testa, la spiccava dal resto (la spellava anche, a volte, ma non sempre) e poi stava lì come un bambino curioso a contare gli insetti che ci si posavano sopra. Ve lo ricordate? Ecco: dimenticatevelo.

Oggi Damien Hirst è un altro uomo. L’avevamo lasciato tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia. Era il 2017. E nonostante ai Giardini e all’Arsenale andasse in scena una Biennale insolitamente sensuale e colorata, Damien dominava la laguna con una personale kolossal, pensata come un ritrovamento archeologico e godibile come un parco di divertimenti. Oro, giada, marmi a profusione che nemmeno un cimitero, incrostazioni preziose e squisiti giochi concettuali lo incoronavano lì il più esibizionista tra gli artisti viventi.

Ma lui, sotto sotto, doveva essere già esausto. Dieci anni di lavoro indefesso, a gestire maestranze come un capocantiere, a progettare senza sosta, aspettando però a volte tempi infinitamente lunghi (anche due anni, racconta) per vedere un pensiero trasformarsi in realtà. Insomma, un’impresa tale da far stramazzare anche il nostro solido ragazzone borchiato.

 

Damien Hirst
Damien Hirst, Renewal Blossom, 2018. Photographed by Prudence Cuming Associates. ©Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2020.

 

Così, durante il disallestimento (un paio di settimane solo per smontare il colosso dal cortile di Palazzo Grassi), mentre collezionisti e musei si accaparravano i pezzi più interessanti staccando assegni dai quattromila ai quattro milioni di dollari, Hirst stava già pensando a una maniera più a misura d’uomo per spendere il suo tempo da artista.
E per riappropriarsi di ogni passaggio creativo.
Ebbene sì: la sua idea è stata quella di tornare alla pittura.
Ma non quella algida e geometrica dei Dots. No: la pittura vera, quella che palpita nei musei. Quella di Monet, Pissarro e anche Pollock. Una provocazione? Il parossismo della provocazione? Non possiamo escludere che sia cominciata così. L’uomo che non perde occasione per dichiarare quanto gli piaccia rompere le regole e comportarsi male potrebbe benissimo aver deciso di rovesciare il tavolo – con tutte le sue mosche sfrigolanti e i suoi scorticati anatomici – e di piazzarci sopra una bella tavolozza.
Per giunta una tavolozza rosa. Ma poi il gioco deve avergli preso la mano. In tre anni, dall’autunno del 2017 alla fine del 2020, Hirst si è chiuso nel suo studio e si è messo a dipingere ciliegi in fiore. Raccontando che quando gli amici andavano a trovarlo, la prima domanda che gli facevano era se fosse innamorato. Ora il patrimonio di questi Cherry Blossoms ammonta a 107 tele, spesso riunite in dittici e polittici.
E sono talmente interessanti che la Fondation Cartier di Parigi ha deciso di raccoglierle in quella che dal 1° giugno sarà ufficialmente la prima mostra museale francese del ragazzo terribile di Bristol. Sono pezzi gestuali, che visti da vicino raccontano il piacere di manipolare la materia pittorica liberamente e sfrenatamente, ma che allontanandosi rivelano suggestioni impressioniste.
Del resto Hirst, anche se gioca a fare il Bad Boy, è un vero estimatore dell’arte.
Ama Goya, Soutine, Picasso, Duchamp e De Kooning, e possiede – beato lui – Francis Bacon, Richard Prince e Jeff Koons. A chi gli chiede come mai sia passato dalle mosche morte a tutto quel rosa, risponde che alla fine anche qui lui sta parlando della morte, esattamente come quando ci travolgeva con i suoi quadri neri brulicanti di mosche, perché per la simbologia giapponese l’albero di ciliegio è il massimo simbolo della caducità e dell’effimero: basta un alito di vento a spogliarlo dei suoi fiori.
Sarà, ma tra il fatto che oramai, con i suoi tre pargoli, è diventato un tranquillo e morigerato family man, e che si è messo nientemeno che a dipingere fiori rosa, be’, il dubbio che il più temibile dei young british artists stia diventando una mammoletta, un po’ ci viene.

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