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Giovanni Viganò

Il famoso filosofo e scrittore svizzero Jean-Jacques Rousseau scriveva che “quando la realtà non risponde più ai bisogni della popolazione (che per il filosofo si muove ed è viva) bisogna reinventarla”. E a queste parole, a questo suono, a questa dichiarazione sembra che Maurizio Galimberti abbia risposto in maniera forte e decisa.

“Dario Fo durante il ritratto ha cercato più volte di muoversi, come se fosse su un palcoscenico, ambiente a lui più familiare, con un movimento, una “gesture” tipicamente sua. Alla visione del “mosaico rinascimentale”, come da lui definito, è rimasto sbalordito dalla multidimensionalità dell’opera”

 

Maurizio Galimberti
Maurizio Galimberti, Dario Fo , 2011

 

Maurizio Galimberti fa sue – senza snaturarle – tutte le immagini che vuole trasformare, reinventare, riproporre ai nuovi bisogni della popolazione artistica che lo segue.

Rispetto ad altri artisti famosi, – che hanno utilizzato la Polaroid in modo da riportare “AS-IS” la realtà, anche magari – si pensi magari a David Hockney, – con una tecnica che potrebbe sembrare a prima vista molto simile, ma che a un’analisi più attenta fa emergere le forti differenze – , Maurizio Galimberti porta in primo piano dettagli che da subito non cadono all’occhio dell’osservatore e lo fa sia quando scatta dal vivo ritratti o architetture che quando rivisita foto cult della storia dell’ultimo secolo appena trascorso.

 

“Anche nelle architetture Maurizio Galimberti crea un suo modo di entrare dentro la scena e le cose per donare a chi guarda l’opera una nuova strada interpretativa”

 

Maurizio Galimberti, Colosseo Cilindroso, 2012

 

L’allora bambina Kim Phúc, più conosciuta come la bambina della fotografia, vittima delle atrocità della guerra in Vietnam, acquisisce un secondo attore non protagonista che agli occhi dei tanti è sempre rimasto invisibile. Una rivitalizzazione di dettagli magari persi o dimenticati che rinascono in una capacità di sintesi quasi analitica.

Ho avuto modo di assistere ai ritratti di Maurizio Galimberti diverse volte, anche a persone a me vicine: una su tutte è il ritratto a Dario Fo. Ho assistito alla ripresa di un soggetto quasi “statico” che però al termine della performance è entrato in un suo movimento. Il leggero cambio di prospettiva della singola tessera di mosaico “Polaroid” ha reso il soggetto quasi tridimensionale, in un movimento plastico che, per chi osserva l’esecuzione del ritratto, sembra quasi impossibile. E anche per chi “subisce” il ritratto è quasi inspiegabile.

Dario Fo durante il ritratto ha cercato più volte di muoversi, come se fosse su un palcoscenico, ambiente a lui più familiare, con un movimento, una “gesture” tipicamente sua. Bloccato da Galimberti, alla visione del “mosaico rinascimentale”, come da lui definito, è rimasto sbalordito dalla multidimensionalità dell’opera, un misto tra un mosaico rinascimentale e una terza dimensione, tipica delle opere spazialiste.

Il movimento di entrata e uscita nel ritratto crea una musicalità tutta sua, quasi come se ci trovassimo davanti a uno spartito musicale corretto e rivisto dal maestro d’orchestra.

Anche nelle architetture, Maurizio non ritrae una foto che rappresenta la realtà, ma crea un suo modo di entrare dentro la scena, e le cose, per donare, a chi guarda l’opera, una nuova strada interpretativa, quasi un nuovo bisogno di reinventare, tanto caro a Rousseau.

Ecco che la piazza, il palazzo o qualsiasi altra struttura architettonica, che di per sé sono statiche, assumono un movimento dinamico, una sorta di prospettiva mobile su un qualcosa che per sua natura è fermo.

Questa è la capacità di Maurizio Galimberti: coniugare arte e fotografia, fare sua l’esperienza acquisita durante il lavoro in famiglia di mosaicizzare tutto e tutti, come è naturale fare con i ponteggi che avvolgono una casa in costruzione e avendo padronanza di una geometria sia piana che tridimensionale.

 

Maurizio Galimberti, Self face n°2 , 2010

 

 

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