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Alberto Mattia Martini

Nicola Samorì oltre a nascere demiurgo, come per definizione dovrebbe accadere per colui che crea, ritengo possa essere definito anche una sorta di “imagologo” dell’arte, in quanto egli mette in atto una comparazione simbiotica con l’immagine che andrà a ritrarre.

Samorì sceglie un autore, lo studia in modo approfondito, lo accoglie, lo vive, per poi identificarsi con una figura specifica; dialoga con essa, con l’opera che ha deciso di dipingere o come afferma lui stesso di “copiare”, facendola sua con una modalità pressoché scientifica.

Gli occhi di Samorì sono quelli che non esistono nelle sue opere: essi ti parlano mentre tace, ti raccontano mentre ti osservano, ti ascoltano ma non ti guardano.

L’immagine prediletta viene raffrontata dall’artista, affrontandone l’iconografia e l’iconologia, gli stereotipi, riproducendola e traducendola in un nuovo reale per poi infine annientarla nella sua parte più intima, attuando una coartazione della materia e direi anche psicologica della stessa.

Nicola Samorì vive in un piccolo borgo della Romagna, un luogo “dal tempo immobile”, divenuto sia la sua dimora, che l’universo creativo prescelto. Un ambiente con una lunga vita: in origine infatti fu una chiesa, successivamente venne trasformato in cinematografo e poi in tipografia.

 

Nicola Samorì, Lingua Greca, 2017, cm 57x34x34, onice. Courtesy Galerie EIGEN+ART, Leipzig/Berlin. Foto Rolando Paolo Guerzoni. AmC. Collezione Coppola, Vicenza.

Entrando nella grande navata sembra ancora di avvertire la sensazione del profumo dell’incenso, anche se l’effluvio che attualmente domina l’aria è quello del colore ad olio, della trementina e dell’acquaragia.

I fasci di luce penetrano dalle grandi vetrate come lame taglienti, invadendo lo spazio, pervadendolo di un barbaglio
dall’atmosfera mistica. Circondati da tele finite e alcune in corso d’opera, sculture, residui materici, stracci, contenitori di colore e pennelli, ascoltiamo l’iridescenza sulla polvere e sulle stratificazioni dei dipinti, anche
se Samorì da sempre predilige il buio. Quella di Samorì è un’arte dall’impronta identitaria, che non potrebbe
essere stata detta altrove, egli infatti recupera la lezione dei maestri del Rinascimento, del Barocco i Fiamminghi ma
anche certuni artisti del ‘700, dando forma a ritratti, santi, miti, che divengono compagni di innumerevoli giornate di lavoro, di un tempo scandito dalla dovizia della tecnica e dalla stratificazione del colore.

 

Nicola Samorì
Nicola Samorì. Photo ©Riccardo Piccirillo

 

“Penso di essere un raro esempio di masochismo nell’arte. Accumulo empatia con l’opera per ore, a volte per giorni, e
trovo sempre il coraggio di uccidere tanta cura”. Ecco, improvvisamente accade quello che potremmo definire “il delitto perfetto”; Samorì deturpa, taglia, lacera, penetra con le mani le sue opere, lasciando affiorare l’alterità, il dolore, le fragilità, ma al contempo ne emerge una rinascita improvvisa, un’epifania di qualcosa che già esisteva, che già c’era, che viveva, ma che era soffocato dall’immagine in superficie.

Il “crimine” avviene in due modalità: la prima richiede oltre che le mani, un bisturi, infatti una volta terminato il  dipinto, la pittura viene sollevata, spellata, aperta, fino a mostrare, come nella pelle umana, il rovescio di se stessa.

 

Nicola Samorì, In principio era la fine, 2016, olio su tavola, cm 30×20. Courtesy Monitor Gallery, Rome/Lisbon/Pereto.

 

Nel secondo caso l’atto efferato si compie a mani nude e necessita una lunga attesa, che avviene giorno dopo giorno, quasi a voler sfiancare l’opera, in modo che la pittura si stratifichi con passaggi di colore, fino all’ultima narrazione di un’immagine, che attende inconsapevole di essere lacerata e apparentemente morire.

In entrambi i casi esse sono operazioni brutali, dirompenti, come asserisce lo stesso Samorì, sono “una colluttazione con la pittura”, anche se a mio avviso tali gesti radicali, ci indicano e prospettano la possibilità di un altrove, di una nuova opportunità; come accade per i buchi e i tagli di Fontana, le opere di Samorì aprono spazio, non ad un esito ma ad una resurrezione.

 

Una veduta dello studio dell’artista a Bagnacavallo.

 

Queste opere sembrano non interessarsi allo scorrere del tempo, al suo spirito, forse per egoismo o forse per paura di capire un giorno la vanitas dell’esistere.

Qui gli occhi spesso non esistono, ma siffatte presenze pittoriche ricordano tutto, Samorì le ha private degli organi oculari, in modo che non siano solo essi ad attirare la nostra attenzione; il volto è la parte cancellata, negata, perché quella più vulnerabile, nonostante ciò ci sentiamo costantemente osservati, messi a nudo e privati delle nostre maschere psicologiche.

Osservando questi dipinti ci sembra di assistere alla creazione di forme estreme, il cui gesto, la rilevanza dell’azione quasi performativa, dell’atto plastico sulla pittura stessa, le trasfigura da pitture a sculture.

 

Nicola Samorì, Maddalena, 2010, olio su tavola, cm 70×50. Foto Daniele Casadio. AmC Collezione Coppola, Vicenza.

 

Vedo un profondo buco nero, dove non percepisco l’estremità, se non queste immagini, forme, che aggrappate all’unica lama di bagliore si contorcono per poter riemergere, inconsapevoli che le attende al varco il loro creatore: “è come se venissi colto da una sorta sindrome di Saturno”, che induce Samorì a creare le sue opere, ma anche ad essere pervaso dal desiderio di divorarle. Nicola Samorì vuole andare oltre, lacerare, scavare, vedere cosa c’è interiormente e internamente all’immagine, di sovente custode di qualcosa di orrendamente indescrivibile, tuttavia estremamente affascinante, che passa necessariamente dallo stravolgimento della storia dell’arte, dalla sua reinterpretazione, attraverso il suo assassinio, per poi reincarnarsi e ritrovare paradossalmente un afflato vitale.

 

 

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