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Angelo Crespi, Gianluca Marziani

Hirst, vilipendio di villa Borghese

di Angelo Crespi

Peccato non esista il reato di vilipendio dei musei antichi. Al banco degli imputati ci sarebbe Damien Hirst e con lui i curatori della mostra dell’artista britannico in corso alla Galleria Borghese. Probabilmente Damien Hirst sarebbe assolto perché oggi gli applauditori di queste cose occupano posti chiave e hanno a disposizione la gran cassa mediatica; e anche i più dubbiosi e critici, anche i giudici più accorti nel clangore delle fanfare si troverebbero a disagio a sostenere l’accusa in pubblico, mica di sembrare fuori moda e politicamente scorretti.

Eppure ci vorrebbe maggior coraggio, tanti sono gli artisti che a mezza voce reputano insopportabile la boria con cui i concettuali entrano nei templi dell’arte antica, quella che ancora si faceva con le mani. E basterebbe compulsare Richard Sennet e il suo L’uomo e l’artigiano per trovare gli argomenti seri con cui sostenere le tesi della “mano intelligente” e di come la sola vera arte è quella che si fa facendola e non basta pensarla e delegarne la realizzazione ad altri. Ed invece siamo circondati da clacchisti che prediligono, per stupidità o perché stipendiati, l’arte in cui basta l’idea.

In ogni caso, “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” di Damien Hirst, già presentata a Venezia a Palazzo Grassi, si fonda su una trovatina concettuale, cioè che le opere ripescate in fondo al mare, confermate da un filmato del (finto) recupero, siano il tesoro di una ipotetica civiltà perduta (la nostra). Così tra le sculture incrostate di sale e coralli c’è pure la statua di Mickey Mouse e altre amenità del genere, nonché una serie di figure, divinità e mostri, che completano  il catalogo di questa inverosimile mitologia.

Di fatto è un’ideuzza e una volta scoperto il trucco la presunta arte si dissolve e resta la fragilità dell’invenzione.
Da un lato, infatti, è inutile riguardare una di queste opere perché lo stupore della prima volta non può essere ricreato, un po’ come una barzelletta di cui si sa il finale non fa più ridere, dall’altro i risultati dal punto di vista plastico sono imbarazzanti: benché siano stati chiamati ad eseguire le opere i più valenti artigiani dei vari materiali usati, marmi e pietre, non si riesce a vincere la sensazione di essere di fronte a una iperbolica operazione kitsch, tipo quando si va a Disney World e si vede il sarcofago di Tutankhamon in cartapesta dorata.

Soprattutto il confronto con i grandi dell’antichità è ingeneroso, per esempio con in capolavori di Bernini i cui intenti mitografici hanno esiti miracolosi, pur trattandosi anch’essi di ripescaggi letterari filtrati dalla cultura del tempo.
Ma un conto è inventare forme nuove, confrontarsi con la dura materia, saggiarne i limiti e le potenzialità, trovare la strada, un conto è non aver mai scolpito, non sapere di cosa si tratta e avere comunque la tracotanza di fare fesso il pubblico che è frastornato dalla retorica che regge il concettuale. Immaginiamo, al contrario, cosa succederebbe se andando a un concerto di violino scoprissimo che il violinista non ha mai suonato in vita sua.

Grave dunque è che le ormai numerose esposizioni di arte contemporanea in musei importanti di arte antica, dove a fianco di opere celebri per la bellezza e significanza, viene esposto un pezzo fake e insignificante, ingenerino nel visitatore l’idea che anche la cosa orribile e mal fatta sia arte al pari delle altre.

E nel mentre l’artistar che lavora sulle persistenze iconografiche della nostra civiltà, sempre in chiave dubitativa o dissacrante o ironica, o per ottenere un lucro di immagine, erode fino in fondo i giacimenti di senso del nostro passato, prospettandoci una presta fine.

 

damien hirst
Damien Hirst, Female Archer, 2013, bronzo. Collezione privata. Foto by A. Novelli ©Galleria Borghese –Ministero della Cultura ©Hirst and Science Ltd. All rights reserved DACS 2021/SIAE 202

 

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