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Giovanna Lacedra

C’è una storia dell’arte che racconta l’amore, anche quello omosessuale, mescolando l’impeto carnale all’estasi spirituale. Attraverso il mito, l’allegoria, la leggenda, la realtà, l’arte liquefa i più densi tabù, divaricando menti ed estendendo orizzonti. Perché l’amore in ogni sua forma, e il desiderio in ogni sua forma, restano esperienze di straordinaria bellezza.

Nel corso dei secoli il gesto creativo ha fermato nel marmo, nella terracotta, sulla tela o in uno scatto fotografico, la passione e la tenerezza tra soggetti dello stesso sesso. Qualcosa che ai giorni nostri, nella nostra società, va ancora spiegato, tutelato e difeso, ma che in un passato non recente era, invece, assolutamente rispettato. Come scriveva Alessandro Manzoni, “non sempre quello che viene dopo è progresso”.

Ce lo insegnano i ceramografi attici del VI-V secolo a.C. che, sul corpo di anfore o crateri fittili, hanno inciso e dipinto scene di pederastia, una pratica consueta per la società ellenica, durante la quale un adulto, definito eraste, sceglieva un adolescente da corteggiare ed intrecciava con lui una relazione ufficiale. L’eromene, ossia il giovane amante, viveva così un percorso di iniziazione non soltanto sessuale ma anche intellettuale, in quanto questo tipo di legame aveva per i greci un alto valore pedagogico. La pittura vascolare a figure rosse su fondo nero o a figure nere su fondo rosso mostra sovente atteggiamenti di corteggiamento da parte dell’eraste, offerte di doni o veri e propri atti sessuali tra i due uomini.

 

Henri De Toulouse-Lautrec, Il bacio a letto, carboncino e olio su tela, 1892.

 

Sulla superficie di un’anfora ateniese a figure nere risalente al V secolo a.C. e oggi conservata a Monaco, l’eraste è ritratto di profilo mentre con la mano destra accarezza i genitali del giovane e con la sinistra gli sfiora il mento, tentando di sedurlo con lo sguardo. Una pratica analoga, nota come shud, si era sviluppata in Giappone durante il Medioevo, per poi tramontare nel secondo Ottocento. Si trattava di una tradizione riguardante relazioni omosessuali tra un adulto, chiamato nenja, e un adolescente, identificato con il sostantivo wakashu, nata nella società dei samurai. Esiste tutto un filone di xilografie nipponiche omoerotiche, realizzate da artisti del calibro di Hokusai e Hiroshige – padri indiscussi dell’arte ukiyo-e –, definita oggi come arte shunga e che godette di gran fama nel periodo Edo. Anche in questo caso le scene raffigurano atti sessuali decisamente espliciti, spesso tra onnagata, ovvero attori di teatro kabuki travestiti da cortigiane. Molto spesso queste immagini rasentano la pornografia e non è raro imbattersi nella rappresentazione di falli sproporzionati. Le stampe shunga, a conclusione del periodo Edo, vennero gradualmente sostituite dalla fotografia erotica, parallelamente diffusasi a Parigi durante l’Impero di Napoleone III.

E proprio a Parigi, a metà dell’Ottocento, il dissidente e antiaccademico Gustave Courbet, autore della celebre e scandalosa Origine du monde, ispirandosi ai versi della poesia Delphine et Hippolyte dell’amico Baudelaire – tratta da Les Fleurs du mal – dipinse Il Sonno, una tela che ritrae due donne nude giacenti su un letto e addormentatesi in seguito ad un amplesso.

I loro corpi, ancora caldi e generosi, si legano in un intreccio di gambe. La dormiente bionda si rifugia in quel nido che solitamente si crea tra collo, spalla e capelli di una donna, e che ha sempre una fragranza di sensualità. Respira piano sul seno della sua amante fermandone, con la mano sinistra, la gamba destra. Sul letto, a mimetizzarsi con il candore delle lenzuola, una collana di perle rotta rimanda ad un piacere consumato, forse, con una certa voracità.

Scene di delicato lesbismo sono state dipinte in quegli anni anche da Henri De Toulouse-Lautrec, assiduo frequentatore delle case di tolleranza presenti sulla collinetta di Montmartre all’epoca della Belle Époque. Una frequentazione che avveniva non soltanto in veste di cliente, quanto piuttosto di amico cordiale e fraterno confidente.

Toulouse-Lautrec (che si fregiava del titolo di conte di Albì) aveva infatti intessuto con le abitanti-lavoratrici dei bordelli un rapporto di vera amicizia. Conosceva le loro storie e i loro segreti. Sapeva che molte di loro nascondevano un passato doloroso fatto di miseria, soprusi e abbandoni. Così, quando si recava a trovarle le ascoltava raccontarsi, le osservava truccarsi e abbigliarsi, le ritraeva durante scambi di intime effusioni, perché tra quelle mura, spesso, nascevano amori omosessuali. Appartengono a questo periodo i due Baci dipinti da Lautrec, che catturano – con la sua solita pittura magra e risparmiata – la stessa coppia in due momenti diversi: una volta nell’atto di scambiarsi un tenero bacio sotto le lenzuola, un’altra nel gesto di avvilupparsi in un approccio più passionale.

E sempre a Parigi, nel palazzo del Municipio del decimo distretto, più precisamente nella sala in cui si celebrano i matrimoni, uno scultore tendenzialmente classicista di nome Jules Dalau, coevo del conte di Albì, scolpisce un fitto altorilievo in cui due uomini nudi, muscolosi e virili, si baciano con trasporto. Quest’opera, tutta giocata su tensioni muscolari – e non a caso, dal momento che Dalau fu allievo di Rodin e quest’ultimo studiò fervidamente Michelangelo –, si intitola Fraternità dei popoli. È un bacio omosessuale a farsi allegoria della fraternità.

 

Iconografia LGBTQ
Jules Dalau, Fraternità dei Popoli, 1883.

 

A partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, l’amore tra persone dello stesso sesso viene più volte immortalato in tutta la sua autenticità dalla fotografa statunitense Nan Goldin, la quale mira a cogliere attimi di vita vissuta, scatti rubati, istantanee del vero. Si passa così dall’immagine puramente omoerotica alla narrazione di un amore che dura nel tempo, che è carne, anima, sesso, lacrime, droga, miseria, quotidianità, condivisione.

È il caso della serie intitolata “Gilles e Gotscho” e risalente ai primi anni Novanta. In questi scatti la Goldin cattura momenti intimi appartenenti ad una coppia gay francese, alla quale è legata da una profonda amicizia. È una serie lirica e straziante. Nelle prime fotografie i due uomini sono colti in attimi di assoluta tenerezza, mentre nelle ultime si assiste al dramma dell’AIDS che consuma Gilles, fino all’ultimo, commovente bacio che Gotscho gli darà sul letto di morte.

Anche qui, come sempre, l’arte ci consegna la più importante delle lezioni: ogni legame è sacro, ogni desiderio è legittimo, ogni amore è assolutamente degno di essere vissuto.

 

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