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Agostino Arrivabene

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Il viaggio iniziatico di un pittore alchemico

 

Entrare nell’antro magico di Agostino Arrivabene è un’esperienza tutt’altro che comune. Non è, infatti, una “normale” casa, non è “solo” uno studio d’artista. È quello che oggi si direbbe “un’esperienza immersiva”, ma, con più senno e più giudizio, un tempo si sarebbe chiamato invece col nome proprio di esperienza iniziatica.

Chi creda, sbagliando, ch’io stia esagerando, ebbene, non ha che da prendere l’autostrada, o meglio una strada provinciale, fino a Treviglio, e di lì battere una serie di altre stradine e stradelle qualsiasi, di campagna, superare un pugno di paesini che al forestiero appariranno un po’ tutti uguali, come sempre appaiono i borghi della bassa padana, e infine giungere, lungo un percorso che l’artista stesso vi saprebbe indicare, a una cascinotta mezza isolata, meglio, direi persa nel nulla, tra campi aperti e qualche muro sbrecciato, residuato d’un antico e povero feudo di campagna, un tempo non tanto lontano proprietà d’una famiglia di nobilotti ottocenteschi.

Dentro quel nulla, una porticina, ad arrivarvi al buio (come vi sono arrivato io stesso), appena illuminata, e dietro quella ecco una scala, in pietra, come sono sempre le scale di certe vecchie cascine. Sopra, come un salutare schock, vi si aprirà un mondo.

È il mondo, l’universo, la “cavea demiurgica” (la definizione è sua) di Agostino Arrivabene, una wunderkammer segreta e affastellata fino all’estremo di oggetti, reperti, opere, fossili, simboli, e ancora scheletri, amuleti, conchiglie, teschi, bucrani, innesti di animali diversi e meravigliosi, e quadri, medaglioni, insetti, sculture, carapaci, coralli, strane teche e campane dal sapore esoterico, che paiono tutti e tutte uscire da un antichissimo rituale mezzo sincretico e mezzo pagano.

 

“Ragionavo che il processo creativo che ha sempre caratterizzato la mia opera è esoterico ed esoticamente votato al viaggio astrale e magico, forse alchemico, se si parla di mutazione o trasmutazione dal piombo all’oro”.

Agostino Arrivabene

 

Un ordinatissimo e studiatissimo caos – ossimorico, in questo, come sempre sono ossimorici i quadri di questo pictor optimus catapultato per caso o per destino ai nostri giorni, artista contemporaneo quant’altri mai, ma senza i manierismi, i cliché, i tic e le furbizie del linguaggio del contemporaneo, anzi, essendo egli ladro e trafugatore di tecniche e di segreti – più segreti che siano mai stati dati – agli antichi maestri, i pittori quattro e cinquecenteschi, da cui l’artista imparò, appena giovinetto, a creare egli stesso i colori, a mescolarli, a sviluppare tecniche un tempo consuete e oggi considerate desuete.

E che noi stessi, critici dell’oggi, del domani e forse del dopodomani, sconosciamo completamente, al solo sentirle raccontare, minuziosamente e certosinamente come solo certi grandi ferventi e illuminati della pittura riescono a fare, per ore, rischiamo di perderci e persino d’annoiarci.

Ma tant’è. Questa è la caratura, la materia segreta e alchemica di cui questo pittore straordinario e rarissimo è fatto: di mestieri, tecniche e sguardi imparati da solo – poiché l’Accademia, che pure lui stesso ha frequentato, poco o nulla insegna di antiche discipline pittoriche, privilegiando invece le nuove –, di tecniche antiche e dismesse, guardate fin da quando era poco più che fanciullo.

 

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Agostino Arrivabene, Le due morti, 2020, encausto su lino, cm 150×200, collezione privata

 

E già disegnava e fantasticava, da solo, su fogli sparsi, su tele e tavole, a metà strada tra simbolismo e fantasy, radunando sue schiere d’immaginarie proiezioni mentali di personaggi mezzi presi dalla mitologia antica e mezzi dalla sua sfera famigliare e amicale, di giornate solitarie d’infanzia e d’adolescenza, tristi o malinconiche come sono spesso malinconiche le giornate dei giovani predestinati e presi in giovane età da qualche sacro fuoco o da qualche (altrettanto sacra, e inviolabile) singolarità e diversità dagli altri loro coetanei, piene, come sempre sono, di pensieri inconsueti e di sprazzi d’illuminazione e di visioni come solo sanno averle i geni precoci, e poi di letture, letture, letture: di classici, di taccuini d’artista, di poesia, di storia, e d’arte, e di mitologie classiche e di mitologie intime, private, e segrete.

L’ultima mostra, “Superbia”, aperta al museo Civico di Crema fino ai primi di aprile, era non a caso dedicata alla Divina Commedia (solo parte di un progetto più ampio, se non immenso, cui l’artista sta lavorando da tempo, e di cui non s’intravede ancora neppure vagamente il finale), e visitarla con l’artista, era anch’essa un’esperienza a se stante – tali e tanti erano i rimandi, le citazioni, le illuminazioni, i racconti, i riferimenti tra il letterario e il pittorico, che passavano dall’esegesi del celebre canto dell’Inferno dedicato ai superbi, all’influenza e alla “scoperta” di Michelangelo (avvenuta nel 2018, come un’epifania improvvisa e drammatica, con la potenza d’una vera Sindrome di Stendhal – con tanto di pianto liberatorio davanti alla Cappella Sistina: “incontro tra sodali”, lo definisce oggi lui), con la lettura della Commedia e sua interpretazione continua e incrocio fatale con la poetica dell’artista, oltre che dei diari e delle rime del Maestro della Cappella Sistina: rime che, in Arrivabene, hanno lasciato un segno forte, al punto da inserirne una – la 285, la celebre delle “due morti”, quella del corpo e dell’anima –, in apertura di mostra, quasi a suggello di un “memento mori”, simbolo estremo della vanità della vita, se non vissuta tendendo “all’eterno”: “l’incarnazione”, ci spiega l’artista, “di una consapevolezza che facevo anche mia, ovvero l’idea che l’artista, per giungere all’eterno, deve passare attraverso la testimonianza del suo fallimento, poiché il talento deve essere testimone di qualcosa di più ampio, e non della mera esaltazione di sé”.

 

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Ritratto di Agostino Arrivabene, foto max&douglas.

 

E una tensione all’eterno è indubbio che vi sia, in questi quadri vuoi empirei e apollinei vuoi drammaticamente dionisiaci, fatti di pittura tesa all’inverosimile nella ricerca d’un nuovo sublime, mai ingenua né mai minimamente retorica, consapevole di quant’acqua sia passata sotto i ponti delle avanguardie in questi decenni e tuttavia indifferente ad essa, tesa sotto gli spasmi della carne, del colore, del dolore, della materia, della febbre, fatta a volte d’ammassi di corpi danteschi e altre volte rarefatta fino all’estinzione, insieme brumosa e luminosissima, a tratti paradisiaca, epifanica, eterea, a tratti invece infernale, capace di coglierti di sorpresa e folgorarti come un folle e gioioso sogno mattutino, perso in un “attimo di assoluta beatitudine” – quell’attimo con cui termina magistralmente il più poetico e rarefatto dei romanzi dostoevskiani, Le notti bianche; pittura germinale e sobbollente, viva nella materia e nel suo cambiar forma, nel suo mutarsi, nel suo crescere sulla tavola o sulla tela e parimenti dentro la nostra testa, capace di rimanervi infitta per giorni e giorni e di tornare a galla, nella nostra immaginazione, mesi dopo averla vista e sentita e saggiata dal vero.

 

 

“Ragionavo”, mi diceva un giorno l’artista, “che il processo creativo che ha sempre caratterizzato la mia opera è esoterico ed esoticamente votato al viaggio astrale e magico, forse alchemico, se si parla di mutazione o trasmutazione dal piombo all’oro”. Il viaggio iniziatico con la pittura di Agostino Arrivabene, pittore di visioni e di trasmutazioni alchemiche, è un viaggio nel profondo dell’io e al contempo nell’indistinto del cosmo, del tutto. Dall’informe alla forma, dalla terra al cielo, dalla materia viva all’immateriale delle idee universali ed eterne.

 

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