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Alberto Garutti, presenze assenti

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Da Minini un elogio alla meditazione. E al silenzio

 

Il tema delle “presenze assenti” di Aspettando Godot di Samuel Beckett, ci porta, per la nostra periodica rubrica su Arte In, a raccontare oggi della magica esposizione “Non possiamo fare finta di niente” di Alberto Garutti alla Galleria Massimo Minini di Brescia.

Proprio nel tempo in cui il grande circo dell’arte riprende lo spettacolo, proprio quando si riaccendono le luci e i riflettori su eventi fieristici internazionali (Armory Show a N.Y., Art Basel a Basilea, Miart a Milano, Fiac a Parigi e Miami Basel) e su grandi mostre (Maurizio Cattelan all’Hangar Bicocca, Jeff Koons a Palazzo Strozzi, Bruce Nauman a Punta della Dogana a Venezia e, Niki De Saint Phalle al MOMA PS1, l’Arco di Trionfo “impacchettato” di Christo a Parigi), proprio quando il fruitore dell’arte riassapora l’”assembramento di quelli della stessa specie”, proprio allora la storica Galleria Minini e il suo guru incontrano un maestro, un filosofo e anche un professore in una mostra “silenziosa”.

In controtendenza, controcorrente e con approccio meditativo e decisamente concettuale, la storica Galleria Minini a Brescia espone delle opere dialoganti, dei lavori iconici rappresentativi del lavoro mentale che precede l’applicazione fisica, proprio del linguaggio di Alberto Garutti.

 

Alberto Garutti
Michele Ciolino di fronte all’installazione di Alberto Garutti Cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno.

 

Come accade nella pratica dell’artista, l’incontro con l’opera è destinato a produrre una trasformazione radicale dello spettatore. La Galleria è il “porto naturale dove gettare l’àncora ancora una volta”, è il luogo dell’incontro dei partigiani. La prima meditazione a cui siamo invitati è quella di “Accedere al presente”, un’opera “mobile” che, ruotando, in modo lentissimo, ci propone infiniti orizzonti dipinti, paesaggi astratti nei quali abbandonare finalmente gli occhi. Un incanto meditativo.

Semmai quel sogno onirico ci avesse portato lontano dalla terra, la Gamba del cavallo di Renzo, una gamba di cavallo al centro della sala espositiva, ci riporta alla verità della nuda terra, ai cavalli e cani che sono i custodi del “paesaggio” di Ca’ Corniani e al monumento che omaggia il vecchio contadino Renzo. Nello stesso spirito, l’opera Matasse, una bobina di filo metallico di oltre undici chilometri che misura la distanza tra quel monumento e l’antico casale dal tetto dorato.

Torniamo a sognare, in un viaggio abbagliante, ponendoci davanti alle righe orizzontali bianche e blu dipinte nelle tele, “opera che mi abbaglia come quando guardo il sole”. È l’impressione prodotta sulla retina nell’atto del guardare dalla finestra come se l’esplorazione domestica, quasi di spirito morandiano, potesse produrre un’ascesi metafisica di cui quelle righe sono parte e vettore.

La visita si conclude, ma forse no, nella sala ove sono esposti gli oggetti della serie “Cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno”. Qui, oggetti apparentemente anonimi, in questo caso vasi, sono coperti da pittura fosforescente e appaiono luminescenti solo al buio quando, spente le luci degli spazi espositivi, tutti i visitatori se ne sono andati, “la presenza nell’assenza”, l’opera d’arte sopravvive e in fondo assume una luce magica proprio quando si sottrae allo sguardo dei più…

In tempi di ripresa dell’arte show l’elogio al silenzio, la meditazione e la ricerca di un approccio più intimo con l’arte sono sicuramente testimonianza di un linguaggio che cerca l’anima e la verità.

 

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