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Ivan Quaroni

Tra i vocaboli recentemente divenuti di moda, insieme all’onnipresente e antipaticissimo resilienza, c’è l’insidioso termine disintermediazione, che indica il meccanismo di eliminazione degli intermediari nella catena distributiva, di modo che domanda e offerta s’incontrino direttamente senza l’ausilio di grossisti, distributori, agenti commerciali, venditori al dettaglio o mediatori d’altro tipo. Internet è stato il grande catalizzatore di tale processo che oggi investe un nuovo segmento del mercato dell’arte. Quel che è successo nella musica con Napster, con iTunes e, infine, con Spotify, succede anche nel settore dell’arte digitale con gli NFT (Non Fungible Token).
A guadagnarci sarebbero da una parte gli artisti, che non solo guadagnano di più dalla vendita delle loro opere, ma che finalmente riconquistano una centralità nel sistema dell’arte, e dall’altra i collezionisti che, oltre a risparmiare sui costi di mediazione, possono stabilire un rapporto diretto con gli artisti.
Si badi, però, che la mancanza di mediazione, soprattutto nei processi critici e conoscitivi, non è priva di conseguenze.
A fare le spese di questo processo sono gli esperti, in questo caso galleristi e critici, coloro, cioè, che hanno acquisito conoscenze e capacità di giudizio nel corso di lunghi anni d’esperienza (e di studio) e che ora, almeno nel mondo della crypto-arte, si vedono sottratti d’ogni funzione. Ciò non significa, però, che nel nuovo segmento degli NFT ogni forma di mediazione sia stata annullata.

 

Disintermediazione
Giovanni Motta, Game Over, 2021, video loop.

 

Ci sono, infatti, i market place, cioè le piattaforme su cui si vendono e scambiano le opere digitali, le quali, di fatto, si sostituiscono agli spazi espositivi commerciali, accontentandosi, peraltro, di percentuali di guadagno più contenute a fronte, però, di un minore impegno nei meccanismi che favoriscono la crescita, lo sviluppo e la promozione degli artisti. E ci sono poi le community, che possono esprimere giudizi e influenzare il sistema in nome di una inalienabile libertà d’espressione cui purtroppo si accompagna sovente una totale assenza di competenze.
Così, sebbene alcune piattaforme, come SuperRare, abbiano introdotto in forma di editoriali contenuti curatoriali e critici, resta evidente come nel nuovo comparto la figura del mediatore culturale abbia subito un evidente ridimensionamento.

Se il critico e il curatore sono diventati figure anodine, blandi produttori di contenuti irrilevanti, i galleristi sono stati del tutto estromessi dai meccanismi selettivi che stabiliscono i criteri valutativi della bontà di un’opera. È un processo salutato con entusiasmo da molti, ma sul quale si dovrebbe continuare a riflettere.
Come ha fatto il compianto Roberto Calasso, che nella facile ebbrezza offerta dalla disintermedizione nell’era digitale intravedeva un malcelato odio per la mediazione che è fatale per il pensiero. “Non c’è bisogno di rifarsi a Hegel”, scriveva il patron di Adelphi, “per sapere che non solo il pensiero ma la percezione sussistono soltanto grazie alla mediazione, quindi attraverso continui aggiustamenti e compromessi, che sono l’opera stessa della mediazione” (L’innominabile attuale, Milano, Adelphi, 2017).

Questi aggiustamenti e compromessi, ancorché faticosi per tutte le parti coinvolte, hanno costituito la base dei rapporti tra artisti, galleristi, critici, collezionisti e musei, contribuendo alla costruzione di un sistema di validazione, spesso viziato e certamente perfettibile, ma comunque efficace. Ora, con gli NFT, si profila un nuovo sistema di validazione di cui i soli garanti sono i market place, dei quali, però, ignoriamo procedure e criteri di selezione. Poco male, penserà qualcuno, si sono almeno tagliati i rami secchi.
Eppure, basta una superficiale ricognizione nei meandri di queste piattaforme – nessuna esclusa – per accorgersi che prima o poi bisognerà correggere il tiro. Accanto alle opere più interessanti e innovative, si alligna una moltitudine di esperimenti puerili, bislacchi e maldestri che solo le peggiori gallerie avrebbero avuto l’ardire di proporre. Si sono aperti i cancelli della libera espressione e sono entrate le turbe stravolte dei creativi e degli operatori della comunicazione.

Ma l’arte, temo, è tutt’altra cosa. Perché la rivoluzione dell’arte digitale si avvii verso la maturazione occorre ridisporre, accanto al nuovo, qualcosa di quel che si è perso. Altrimenti la differenza tra i due mondi, quello fisico e quello digitale, è destinata a radicalizzarsi irrimediabilmente.

 

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