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Gianmaurizio Fercioni, l’arte del tatuaggio

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Una dinastia di artisti sui generis, con base nel cuore artistico di Milano, a Brera, nonno couturier d’alta moda nella capitale meneghina, zio caricaturista, un secondo nonno scultore.

Cuori, marinai e sirene, a Brera la bottega di Melville

Gianmaurizio Fercioni, primo tatuatore milanese, ha cominciato nella sua bottega a modellare. Poi gli studi all’Accademia d’arte teresiana, indirizzo scenografia. “Un giorno mi reclutarono per la regia di Patrice Chereau”, racconta, “e partii per la Francia. Realizzai le scenografie per tre spettacoli del grande regista Roger Planchon. Ho lavorato anche in Italia, per il teatro La Fenice, alla Scala e per Gabriele Salvatores di cui sono amico e che ho anche tatuato”.

Gianmaurizio Fercioni
Daniele Vannini, Gianmaurizio Fercioni, 2021. Courtesy ©Daniele Vannini.

 

Che cosa ti ha attratto, all’origine, del mondo del tatuaggio?

Sono sempre stato affascinato dai marinai, per me erano dei superuomini, si arrampicavano sui pennoni in una dimensione eroica, poi la lettura di Moby Dick e i racconti di mare di Melville, la figura di Queequeg, l’arpioniere Maori, l’insieme di tutto questo ha fatto sì che il tatuaggio dirigesse la mia vita parallelamente al teatro.

Quando hai deciso di aprire il tuo studio e il Museo Queequeg Tatoo a Milano?

Volevo aprire un museo per mettere a disposizione degli amici, clienti e turisti la collezione sul tatuaggio che avevo raccolto negli anni, con lo studio annesso, così trovai a Brera la mia base, che è lo stesso ambiente dove tatuo ancora. Agli inizi fu difficoltoso: veniva visto come un covo di banditi.

Dove hai conosciuto il tuo maestro Horiyoshi III e come ha contribuito all’ evoluzione della tua tecnica?

Per curiosità andai a trovare Horiyoshi a Yokohama, si instaurò un rapporto di amicizia, fu mio ospite in studio e a casa mia a Milano, fu un grande privilegio approfondire le tecniche giapponesi con la sovraintendenza di Horiyoshi, che mi suggerì di sdraiare i clienti per renderli passivi nella lavorazione, per questo utilizzo una poltrona da barbiere dove faccio sdraiare la clientela anche se devo tatuare un braccio.

Chi sono i tuoi tatuatori preferiti?

Tra gli emergenti ci sono Pepe, Stizzo, e Davide Andreoli che hanno frequentato vari studi, come feci anche io quando andai ad Amburgo e incontrai il mio maestro Hoffman, il suo studio era un posto di grande fascino. Anche da Alain a Marsiglia, e a Pigalle da Bruno (Brunò per i francesi), una vera sagoma: era italiano, si chiamava Bruno Coccioli ma faceva finta di non conoscere l’italiano perché, come si sa, i francesi ti accettano dal momento che sei francese. Bruno era diventato famosissimo, tatuava anche a Marsiglia dove c’erano dei presidi della legione straniera, mi regalò un cappello raro da ufficiale che conservo nella mia collezione.

Un tatuaggio che hai realizzato e che non potrai mai scordare?

Un tatuaggio che non ha lasciato traccia, lo feci a mia moglie Luisa realizzandolo senza inchiostro, perché voleva provare la sensazione di essere tatuata, rimase giusto il tempo della guarigione e poi è svanito, per cui rimane solo la memoria dell’atto.

 

Daniele Vannini, Gianmaurizio Fercioni, 2021. Courtesy ©Daniele Vannini.

 

Cosa pensi della popolarità che ha raggiunto l’arte del tatuaggio?

Non condivido il tatuaggio come esplosione totale di moda, il fatto che una cosa sia permanente può creare dei problemi a chi lo vede e a chi lo fa. Il tatuaggio è uno dei gesti coscienti dell’uomo per differenziarsi dall’ animale, un gesto consapevole, una modifica del proprio essere.

Come si riconosce il tatuaggio di Fercioni, qual è la tua filosofia, la tua firma?

Sono un artigiano, ho il dovere di far affiorare sulla pelle ciò che una persona ha nell’anima e nella testa. Uso una tecnica difficile, quella di tatuare a un solo ago. Perseguo la ricerca di un’identità: il tatuaggio dev’essere solido, leggibile a distanza, anche se la linea ha lo spessore di un capello. La mia firma è una lisca. Me ne sono appropriato dai pescatori viareggini e livornesi, a cui se chiedi cos’hanno pescato e ti rispondono “Testa e Lisca”, vuol dire: niente, non ce n’è per nessuno.

 

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