La pittura è artificio
Paesaggi tra verità e finzione
Il pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres sosteneva che “une chose bien dessinée est toujours assez bien peinte”. Lo ricorda Giorgio De Chirico in un articolo pubblicato nel 1919 sulla rivista “Valori Plastici”. In quelle stesse pagine, il padre della Metafisica esortava i pittori ritornanti – quelli, cioè, che tornavano alla rappresentazione antropomorfa dopo le deformazioni delle avanguardie – a dotarsi degli strumenti tecnici necessari al conseguimento di tale impresa, primo fra tutti il disegno.
Tra i pittori contemporanei che hanno inteso la lezione del pictor classicus c’è il toscano Jacopo Ginanneschi, classe 1987, che ha sviluppato una pittura caratterizzata dalla precisione ottica e da una volumetria solida e chiara.
Ciò che è accurato e rigoroso nei suoi dipinti non deriva dalla visione monoculare della fotografia, ma da un’osservazione attenta e diretta della natura, disciplinata dall’abitudine di ritrarre dal vivo una morfologia paesaggistica che poi traspone sulla tavola in modo originale.
Bozzetti e studi di alberi, rocce e sentieri servono, infatti, a fissare nella memoria gli elementi che confluiranno nel quadro. Conta, però, il fatto che il paesaggio vissuto e osservato dall’artista sia un territorio in qualche modo già carico di memorie iconografiche, che riverberano nella tradizione pittorica del Trecento e Quattrocento toscani e in quella del Novecento riordinato di marca magico-realista.
Un deposito visivo in cui si ritrovano scorci, valli, colline e rocce che a loro tempo dipinsero i Primitivi senesi e i tardi pittori gotici della Rinascenza. Geografie recuperate anche dal Carrà post-futurista, innamorato di Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca e poi, negli anni Ottanta, da un pittore colto come Lorenzo Bonechi.
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