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Paolo Sciortino

 

“Il valore estetico non esiste in sé nell’opera d’arte, ma è concepibile soltanto in funzione di una interpretazione e di una ricreazione”. Poche parole infilate in due righe con l’incedere di una sentenza, non immediatamente chiara, ma invitante alla riflessione.

Pochi secondi di lettura concentrata, analitica quanto basta, esegetica al minimo sufficiente, per capire che nelle aforismatiche sentenze di Julius Evola, scritte ormai un secolo fa, vi era l’intuizione completa ed esatta del destino dell’arte contemporanea di un Novecento ancora larvale, all’epoca di quelle note, e degli epigoni suoi nel nuovo millennio, non ancora oggi trapassata in altra arte, dopo vere, nuove rivoluzioni.

Julius Evola, aderendo tra i primi nel mondo alla multinazionale dadaista, movimento artistico privo di un preciso centro, di una scuola definita e tantomeno di una specificazione di genere o di stile, non aveva solo coniato il termine “arte astratta” – è sua la definizione, a quanto pare, intendendovi “astratta dal mondo”, con concisione filosofica –, ma aveva pure previsto e ispirato i concetti primi dell’arte concettuale, anche senza verbalizzazione, che sarebbe venuta dopo, e di cui ancora il panorama artistico mondiale si pasce, nell’eterno limbo della modernità.

Pur essendo freddamente antimoderno, il filosofo siciliano, barone non laureato, non sposato, senza famiglia e senza lavoro per dedizione assolutista all’ascesi totale, nel proprio attaccamento teorico speculativo alla tradizione, ha pietrificato l’attualità, ha codificato l’eterno presente in una imperitura icona.

Che cosa vediamo alla Biennale di Venezia 2022? A parte le declinazioni concettuali (già siamo in medias res) e metodologiche, fittamente rappresentate da Cecilia Alemani, che sono solo un accidente nominalistico dopotutto (le donne, l’ibrido, il post-human, il recupero primitivista e colorista, va bene: tutto concettualismo che viene prima dell’arte).

Ma l’aspetto fisico della mostra – di tutte le mostre internazionali d’arte – è la solita vasta, opulenta, raffinata ed elegante messa in scena di installazioni, di situazioni, di eventi, di happening e di performance (oltre a qualche opera d’arte, si capisce), cui assistiamo almeno dai tempi delle Vacanze intelligenti di Alberto Sordi, ma anche da prima. A cominciare dal Padiglione Italia griffato dalla premiata ditta Tosatti-Viola, emblema perfetto del concettualismo decorativo all’ultimo grido.

 

Julius Evola
Julius Evola, Fucina, studio di rumori, 1917-1918, olio su tela, cm 86×81.© Archivio fotografico Civici Musei di Brescia, Foto Fotostudio Rapuzzi.

 

Tutte definizioni e attività dell’arte contemporanea, moderna, postmoderna e transmoderna, che Julius Evola, nel proprio contributo all’ideologia dadaista, aveva preconizzato.

Lo spazio sacro, elitario, inviolabile dell’arte contemporanea che si mette in mostra nei luoghi sacri deputati è occupato ancora oggi dalle eredità del metodo Dada, da valori estetici postulati come inesistenti, in sé, che si rivelano (sempre confidando nelle postulazioni) solo in quanto dichiarati in quanto funzioni o ricreazioni. Da segni che divengono significati variabili e mutevoli sotto le caleidoscopiche luci del libero arbitrio, dall’antiarte che si consacra e celebra come arte, insomma.

L’ideale programmatico Dada, letto e scritto solo da Evola in Italia – mentre tale ideale si componeva a più mani nelle molte dislocazioni territoriali dell’arte, da allora e per sempre, contemporanea –, di un antiarte che si eclissa in sé stessa, che si nega per dissoluzione semantica, il gesto nichilista estremo dell’artista che si dissolve nel proprio Io trascendente implodendo, tutto questo subisce oggi il paradosso del fallimento.

Non nel senso teleologico, finalistico, che Julius Evola dadaista auspicava, ovvero il suicidio, dell’arte e dell’artista, quanto invece quello di una fine cristallizzata della storia dell’arte, ci avventuriamo a dire.

Potrebbe sembrare di sentire ancora una volta il rimbombo dell’eco di Carlo Argan sulla morte dell’arte, ma non è di quello che si tratta, piuttosto il contrario: la vita dell’arte pare infatti subire il destino dell’eternità, eternamente fissata nelle forme, nella prassi, negli enunciati che Julius Evola appuntò un secolo fa. Il fallimento dunque, così come probabilmente prefigurato dall’artista

pensatore, va inteso in quanto esito mai concluso di un programma di annullamento esibito e dichiarato fin dalle prime prove di arte astratta, concettuale, evenemenziale, una volta e per sempre, che tuttavia non è riuscito in pieno in quanto progetto di autodistruzione ma, anzi, l’arte eternamente contemporanea continua indefinitamente a perpetuarsi sempre uguale a sé stessa, come il simulacro di una vita racchiusa in una tomba di ghiaccio.

Non è facile lasciare ai posteri una tale eredità. E forse è anche per questo pesante motivo che a Julius Evola viene continuamente negata l’importanza che egli aveva effettivamente assunto in vita, per la storia dell’arte, magari sotto la falsa, e non del tutto creduta imputazione storica di essere stato troppo filofascista e filonazista (cosa, del resto, non esatta punto, e vera in una dose assai minima): perché Julius Evola aveva intuito la Biennale 2022, nel 1922, e l’aveva già dannata criticamente, come una creatura propria e reietta.

Julius Evola aveva fatto dell’anti un prefisso inseparabile del proprio lessico filosofico, subito dopo avere debuttato come pittore, in preparazione al percorso speculativo e teoretico: anti-idealista, pur amando Fichte, Debussy e Rimbaud, antifuturista, pur avendo appreso la pittura da Giacomo Balla, antimodernista, pur se profeta della modernità presente, antiumanista, pur frequentando i classici della tradizione, e antifemminista, pur avendo amato intensamente, riamato, Sibilla Aleramo.

Una esplosione di contraddizioni, l’esistenza del pittore filosofo, ma in una sola cosa è stato coerente e fedelissimo: è sempre stato dadaista, anche dopo avere smesso di dipingere ha continuato a essere artista nel pensiero e nella profezia. Julius Evola, artista dadaista.

 

Julius Evola, Five o’clock tea, 1917-1918, olio su tela, cm 96×91, © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia, foto Fotostudio Rapuzzi.

 

Non è facile, perciò, nemmeno vederlo in mostra, il tabù della storia dell’arte che ha fatto la storia dell’arte, ma grazie alla volontà lucida e libera di Vittorio Sgarbi, direttore del Mart di Rovereto, godremo da maggio a settembre di una bella raccolta esposta delle opere di Evola (una produzione assai rigogliosa, sebbene realizzata nel giro di pochi anni, tra il ’20 e il ‘23) nel bel museo trentino.

Sono opere che provengono in massima parte da collezioni private, e che danno conto, in una prospettiva ampia e rappresentativa, della filosofia dello spirito evoliana. Se ne colgono le evoluzioni ascensionali, determinate da una spinta di ascetismo lisergico, naturalmente a propulsione drogata – il giovane Julius rasentò la pazzia, e anche il suicidio, per gli eccessi di sostanze psicotrope ma riprodotte con fermezza razionale nel segno e rigore compositivo raffinato.

Le opere astratte di Julius Evola furono composte una decina d’anni dopo Kandinskji, ma non è da dimenticare che il vero primato dell’astrattismo è da assegnare alle Successioni dinamiche di Balla, maestro di pittura del filosofo dell’Io assoluto, che precedettero di almeno un paio d’anni l’epifania astratta di Kandinskji.

Non è dunque nemmeno da escludere che l’allievo di Balla abbia quindi agito per secondo. Se non prima, almeno quasi contemporaneamente alle astrazioni del russo. In ogni caso, senz’altro con intenzioni consapevoli, non guardando un proprio quadro realista al contrario, in preda ad allucinazioni chimiche, e trovandovi una realtà artisticamente migliore nell’irrealtà capovolta.

Nelle tele profetiche del barone Julius Evola, firmate un secolo fa, troviamo le visioni preconfezionate della Metropolis di Fritz Lang, i giochi coloristici di Niki De Saint Phalle, le composizioni macchinose, organicistiche dell’astrattismo americano degli anni Cinquanta e perfino i tratti nervosi, dinamici e istintivi dei writers della Street Art.

 

Julius Evola, Mazzo di fiori [Fiori], 1917 ca., olio su cartoncino, cm 50×50,5, Collezione M. Carpi, Courtesy Futur-ism, Roma, Foto Luca Mariani.

 

Particolarmente apprezzabile, in quest’ultimo caso, è il lettering avveniristico della firma dell’autore, che davvero sembra la sigla di una crew ai margini di un muro urbano.

Al Mart sarà possibile, raro caso da non perdere, convergere sull’opera omnia del Novecento (e successive modificazioni nell’invarianza), compulsando in un solo luogo e in un solo momento le tele meditative di Julius Evola, che si susseguono nell’allestimento come brani apparentemente sconnessi e illogici di un racconto profetico che invece possiede l’intrinseca dote armonica di una sinfonia dipinta.

Tra le volute delle linee che si intersecano con i campi di luce e di colore dei quadri astratti dal reale, tesi a descrivere il ricordo e la visione di altre realtà, si ha l’opportunità di comprendere il segreto codice, immutabile, della contemporaneità.

 

 

 

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