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Liw Volpini

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Nel microcosmo infinito delle emozioni

 

Liw Volpini vorrebbe, per un quarto d’ora, potere incontrare George Seurat e chiedergli di prestarle i suoi occhi, per guardare il mondo come lo vedeva lui.

Guardare e vedere, per la precisione, sono gesti compresi in due ambiti distinti della dotazione umana: il primo appartiene al mondo naturale, il secondo a quello, a sua volta scomponibile (quasi paradossalmente), dello spirituale e dell’artificiale.

Forse anche il grande divisionista, pointillist, come egli definiva sé stesso prima delle etichette della critica, avrebbe avuto piacere di conoscere la piccola Liw, creatura minuta che manifesta preziosa e discreta ostinazione, ferma volontà applicata alla rarefatta, precisissima rappresentazione che, probabilmente, solo l’occhio di una mosca sa riprodurre, per uno scambio di sguardi e di opinioni sulla cosiddetta realtà del mondo.

 

Liw Volpini
Liw Volpini, Riborn, 2021, gesso, smalto e Uniposca, cm. 27×15.

 

In una ideale comparazione tra i due artisti, inevitabile, si assiste all’incontro tra una profezia dell’arte contemporanea e la sua conseguenza nell’attualità. Liw Volpini realizza oggi, avendo raffinato con numerose belle prove la tecnica originale del rain painting, l’evoluzione stilistica coerente e innovativa del pointillisme, appunto.

“Liw Volpini riporta in arte i risultati della scienza e della tecnologia con l’atteggiamento orante e ieratico, meditativo e manuale di una sacerdotessa Zen”

Nella infinitesimale analisi visiva delle cellule del reale consiste la visione del tutto, tra gli spazi impercettibili di vuoto che la materia del colore non invade, l’artista lascia sospensioni interstiziali, disposte sui supporti pittorici con la regolarità di un algoritmo seminatore di pixel che paiono senza soluzione di continuità e invece costituiscono, proprio nella frammentazione microscopica degli elementi primi, la compattezza della rappresentazione.

Seurat aveva previsto in arte, ben prima che cominciasse lo scorso secolo, i frattali, le nanoscienze, i bosoni e le microtecnologie, Liw Volpini riporta in arte i risultati della scienza e della tecnologia con l’atteggiamento orante e ieratico, meditativo e manuale di una sacerdotessa Zen.

Il primo fu consacrato dalla critica del suo tempo “neoimpressionista” (per scarsità di visione e di invenzione), la seconda potrebbe essere oggi chiamata “neodivisionista” (e sempre per gli stessi motivi), preferiamo però considerare George Seurat e Liw Volpini, entrambi, contemporanei e coevi, poiché guardano e vedono nello stesso modo.

 

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Liw Volpini, Venere dei Medici, 2020, gesso, smalto e Uniposca, cm 35×15.

 

Non è strano infatti che gli organi sensoriali degli artisti percepiscano il mondo in senso sincronico quantunque essi siano separati da secolari diacronie. Non se il mondo che si trasmette all’artista è sostanzialmente lo stesso, quello compreso nell’arco teso dalla storia tra la modernità e la contemporaneità. Tale è l’ambito spazio-temporale di riferimento che include il prematuro Seurat e la compiuta Liw.

Compiuta, diciamo, perché in quest’artista è riconoscibile il tratto precipuo della comprensione totale del mondo, dall’Oriente all’Occidente. E naturalmente la sua maniera di rendere l’idea del mondo è precipua, particolare, o meglio: infinitamente particolareggiata.

Liw Volpini è nata in Cina, nella remota contea di Wencheng Yuhu, nello Zhejiang, ma anche questo dettaglio riguarda la burocrazia, perché la patria della sua formazione, umana e artistica, è l’intero pianeta: trasferita a Milano dopo pochi anni di vita, il tempo di una rapida crescita, di quelle che toccano solo a chi la vita non concede un’infanzia lunga e serena, e poi Bangkok, Sydney e infine il ritorno a Milano, come nella parabola sinuosa di un fuoco d’artificio.

L’odissea privata di Liw Volpini ha lasciato tracce, lungo le tappe, dall’Est all’Ovest, e altre tracce hanno lasciato le vie del mondo su di lei. Godiamo la raffinatezza cesellata e paziente della tradizione pittorica orientale tutta inclusa, dall’Eurasia alle Indie, con incursioni evocative del segno ancestrale, aborigeno, primitivo, fino alle suggestioni dei capolavori che tramandano le propaggini estreme dei territori del Sol Levante.

Il tutto profuso con disinvolta naturalezza nei lavori a smalto, ad acrilico, robustamente e coraggiosamente innervati da tratti modernissimi di marker, e tuttavia finemente tratteggiati, sempre con la medesima perizia indefettibile su tela, su carta e su gesso.

L’attitudine e l’ispirazione muovono da un sospetto horror vacui, che tuttavia sottende il gesto volitivo, imperioso ma elegante, quasi umile, eppure pulsante di forza, proteso a difendere e proteggere la verità delle cose pur nell’intuizione terribile che le cose si disfano sotto gli occhi, si disintegrano senza mai essere state davvero integre.

È questo il lavoro incessante e resistente, l’ingaggio incrollabile dell’artista combattente e contemplativa a un tempo: l’avere conosciuto la realtà profonda della caducità dell’esistente, che quando si spezza non è ricomponibile come un puzzle, ma si frantuma in parti talmente piccole che non sono più quasi nemmeno visibili, per poi radunarsi ancora

in forme totalmente illogiche rispetto all’origine. E allora tocca all’artista tenerlo tutto assieme, l’esistente, ricomporre il reale prima ancora che ceda, rappresentandolo per come è, ovvero forma e materia che nell’unità esibiscono la dissoluzione. Per arrivare a un tale risultato estetico e performativo occorre talento diligente, materno, invincibile. È da ritenere che sia il coraggio della visione il maggiore merito e valore di Liw ma, del resto, dovrebbe esserlo per ogni artista.

Va ascritto a questa artista infine, ma non ultimo, l’impegno del lavoro, inteso proprio come fatica fisica, che nei suoi manufatti d’arte reclama una dedizione quasi ascetica, un “grande abbandono”, come lo chiama lei, poco importa che l’artwork sia monocromo o policromo. È sempre un congegno di invenzione e di prassi che lascia incantati per la dovizia della realizzazione.

Lo si percepisce come una vibrazione pura, senso suppletivo che innerva le percezioni ordinarie di tatto e vista, nei composti illusionistici, quasi dei mandala a effetto optical, puntellati con l’esattezza di un telaio meccanico. E lo si vede guardando (ancora) le sculture ricavate da volti reali a cui Liw sovrappone una “seconda pelle” in lattice, su cui infine si deposita a gocce regolari una pioggia dipinta.

In natura non esiste, ma nel mondo sovrannaturale che soggiace sotto l’epidermide della natura, il rain painting non è altro che una somma incessante di micro emozioni che domano la potenza dei tifoni.

 

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