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Paolo Sciortino

Sotto il vulcano brucia la terra, si frantumano le forme del Creato, il magma ribolle come nel primo giorno dell’universo, ogni cosa è fusa e confusa con le altre cose, la vita stessa gorgoglia di morte. E la morte è il combustibile della vita che esplode. Sotto il vulcano è metafora letteraria, intuita da Malcolm Lowry per il titolo di uno dei romanzi eponimi del Novecento, fra quelli che indicarono la dissoluzione della forma narrativa in prosa. Ma sotto il vulcano è anche nato Marcello Lo Giudice, a Taormina, dove la violenza della terra si è scontrata nei millenni con la forza impetuosa del mare, non meno aspra, e però ne è nata la bellezza del luogo. È l’arte della natura, questa, e all’artista spetta l’onore e l’onere di esserne stato allevato, dopo le generazioni di fenici, arabi e greci che lo hanno preceduto, seminando e coltivando sapienza sotto il vulcano. Lo Giudice, come Lowry in letteratura, è il nuovo testimone della verità artistica rivelata dal trauma tellurico che sta sopportando la coscienza dell’umanità contemporanea.

 

Marcello Lo Giudice, Red, 2019, olio e pigmento su tela, cm 140’x140.

 

Egli ne possiede intima confidenza, per nascita, e la verità che conosce non può che provenire, in arte, dalla rivelazione della dissoluzione delle forme, dal disvelamento della intima rappresentazione che esse contengono. L’informale non è più una scoperta, dopo quasi un secolo, è casomai frontiera avanzata, territorio ignoto per argonauti, è scandaglio, ricerca, approfondimento e discesa vertiginosa nel ventre della terra, che continua a bruciare. Anzi, stando alle scienze esatte, essa diventa sempre più rovente.

Una constatazione, quest’ultima, che è anche illuminazione, ispirazione e cagione dell’opera, motivazione originaria da cui non avrebbe potuto esimersi Marcello Lo Giudice, nato sotto il vulcano e geologo, quasi per attrazione fatale. La formazione dell’artista è scientifica, ma va di pari passo con l’approccio più contiguo della scienza al fenomeno terrestre: lo studio del suolo e del sottosuolo, della materia che compone il nostro habitat e che dà consistenza e linfa alle nostre vite. Un approccio olistico, per così dire dunque, culminato nella consacrazione all’arte del sapere empirico.

 

Marcello Lo Giudice
Marcello Lo Giudice nel suo studio.

 

Sacra è infatti la terra, per Lo Giudice, Eden primordiale di materia e spirito da studiare e rappresentare, come fecero gli alchimisti assegnando alle sostanze chimiche e fisiche odori e colori. Ecco che il pensiero interiore di un fondo marino è epifania del blu, l’immagine sotterranea in escandescenza delle viscere del pianeta è rosso ribollente, e dall’osservazione dell’operosità frenetica di un alveare scaturisce magari il giallo misto al nero. Marcello Lo Giudice pensa la natura, sente la terra, ascolta e osserva il mare, raduna le suggestioni, i pensieri, i palpiti e gli scossoni del mondo emerso e immerso, poi arriva il momento del raccoglimento creativo, sparisce per alcuni giorni, seguendo l’istinto animale dei grandi cetacei, o delle piccole rondini, che a ogni ciclo di riproduzione percorrono decine di migliaia di miglia senza perdere le rotte del cielo e degli oceani. Anche la moglie è abituata a quelle eclissi improvvise, che durano il tempo necessario per completare l’opera. I lavori di Marcello Lo Giudice sono impasti di creazione pura, emulazione della molteplicità vorticosa – dunque percepita dai sensi come deforme, illogica, priva di finalità, ma invece integralmente sensata –, del gesto divino che compie ogni secondo la natura nel suo farsi e disfarsi, trasmutare e trascendere.

Inutile, o meglio superfluo, accostare Lo Giudice a Jackson Pollock, o a Emilio Vedova, o magari a Willem de Kooning. Per “accostare” occorre immaginare unità di tempo, luogo e azione, ma in questo caso conviene credere nel superamento, nel trasalimento spaziotemporale: gli artisti che hanno preceduto Lo Giudice hanno esplorato mondi infiniti, ma l’infinito si è allargato, nel frattempo, e l’epigono è andato oltre i confini noti dell’ignoto. Nei suoi viaggi ai confini del mondo l’artista è ben equipaggiato, per compagni non ha milizie scalze, ma regnanti e sovrani, con cui tuttavia scambia condivisioni di valori, prima che di valore.

Dai materassi sventrati e imbottiti di vernice, drammatica memoria della sorte di madri e bambini iracheni periti nel sonno per precipitazioni di bombe, alle variopinte farfalle catalogate a branchi ordinati con il gusto dell’entomologo in teche di vetro che altrimenti conserverebbero immagini devote, il discorso creativo di Lo Giudice si innesta nel solco ancora fresco di un secolo (non ancora concluso, per l’arte contemporanea) che lui stesso definisce “più importante del Rinascimento, senz’altro il più rivoluzionario della storia dell’arte, con una enorme serie di scuole, tendenze, movimenti”.

Bene, egli vi si innesta con strumenti di scoperta rinnovati. Certo, tecniche e risultati sono gli stessi dei maestri pionieri: la matericità delle campiture monocrome, le vergature a spatola, le texture granulose, striate, depositate sulle tele con gesti veloci e istintivi. Ma gli intenti sono del tutto originali, compresi come sono nella lunghissima parabola che va da Pegaso al Nautilus. E le destinazioni dell’opera di Lo Giudice, quanto a stime e valori di mercato, non già solo quanto alle visioni, all’entelechia della rivelazione artistica, sono lanciate verso quote alte, ancora da scoprire dove si fermerà. Un Icaro che non teme di ardere, perché è egli stesso fumantino demiurgo.

 

Marcello Lo Giudice, Dalla Primavera di Botticelli, 2009, ceramica smaltata policroma, cm 94×52.

 

Dialogo sulla terra, sulla scienza e sull’arte

di Milovan Farronato

MF: Due interessi principalmente ci legano: l’amore per l’arte — da diverse angolature e prospettive — e l’attenzione verso la geologia e più in generale verso le scienze della natura. Inizierei chiedendoti di abissi e di catene montuose sotterranee. Di solchi profondi che definiscono fiumi e laghi e correnti d’aria, indistinti da ciò che è “sopra”. Così in cielo come in terra — qualcuno potrebbe suggerire. In ebraico il cielo come d’altronde l‘acqua è un sostantivo unicamente al plurale. Come anche “volto” perché ha tante espressioni. Tutti e tre sono entità mutevoli e quindi intrinsecamente plurali. Durante il secondo giorno della creazione si decretò la separazione tra le acque superiori e quelle inferiori. Azione volta a una separazione piuttosto che a un’unificazione: il cielo, in attitudine ribelle, si strinse ancora più saldamente al mare in un ultimo rivoltoso abbraccio. Quanto, eventualmente, di queste suggestioni è inscritto nei solchi e nei canali esposti in rilievo nella materia forse instabile, di certo plurale, delle tue tele?

MLG: Hai citato correttamente la Bibbia e il secondo giorno della creazione: tutta la mia pittura è rimpianto o ricordo iperuranio della bellezza del nostro pianeta, quando fu creato, splendente di colori puri. E con una natura travolgente, prima che l’uomo la contaminasse con la sua presenza. Infatti da pittore cerco di catturare le emozioni dai miei viaggi, ma anche senza andar lontano, da un dirupo riesco a vedere i particolari di una faglia. Di rocce metamorfiche, che sembrano dei gioielli incastonati dalla natura nel tempo. Tu parli di mutevole. Infatti è mutevole la nostra espressione, è mutevole il nostro corpo, è anche mutevole la mia pittura, che si trasforma con delle variazioni di colore non previste e regalate dalla materia che muta col tempo. Il cielo si stringe al mare. Sì, nei miei Eden blu, c’è una sorta di abbraccio tra il cielo blu e il mare blu, il blu della mia isola dove si consumano le esistenze con questo colore profondo….

MF: L’isola infatti — qualcun altro potrebbe dire — è sempre e comunque quella del tesoro. Un luogo sospeso in cui il tempo viene vissuto nella sua massima estensione, esposto più che altrove agli eventi atmosferici. Ora penso a un’isola del Mediterraneo dove spesso sono stato per lavoro e per ozio creativo: Stromboli. Penso quindi alla terra ricca di minerali, ma anche al fuoco e un’altra tradizione religiosa mi attraversa, febbricitante, la mente. I Brahamana associano la tartaruga, Kuma, alla creazione: il mondo poggia sul guscio di una tartaruga, forma conia di Visnù, creatore e protettore. Nelle tue tele, confesso, oltre che intravvedere la corazza di una tartaruga mi sembra che la terra (o materia pittorica) assuma forme di specie estinte, scomparse e inglobate.

MLG: Si, nelle mie tele, si può vedere e intravedere ciò che si vuole. La mia pittura neoinformale o tellurica, come l’ha definita Pierre Restany, rende omaggio alle ere geologiche e al passare del tempo, che ha segnato con le eruzioni e le inondazioni il nostro pianeta. Nella parte centrale dei miei dipinti c’è quasi sempre una traccia, una presenza, un percorso. Questa traccia, come il taglio verticale di Fontana, è anche una resurrezione verso l’alto. Forse la mia profonda religiosità mi porta alla resurrezione. Poi ci sono le abrasioni, i canali orizzontali e verticali, che sembrano dei percorsi verso l’infinito, come le latitudini e i paralleli del nostro pianeta.

 

 

MF: Rimarrei in ambito naturale, ma mi sposterei altrove e chiamerei in causa i rituali di corteggiamento dell’Uccello del Paradiso, che i Maya e gli Aztechi chiamavano Quetzal. La sua minuta presenza fisica si trasforma nella stagione degli amori, per dismorfismo, in un imponente ovale dalle folgoranti cromie ricorrenti. Impettito, prepara meticolosamente la sua passerella su cui andrà a esibirsi in una sfilata di danze acrobatiche, configurazioni estetiche mirabolanti e inaspettati camuffamenti. Altrettanto seducenti sono le concatenate geometrie circolari che il pesce palla incide nella sabbia per attirare il partner. Con movimenti repentini e costanti della pinna dorsale vince la corrente imprimendo tracciati che ricordano perfetti mandala. Con le sue nacchere toraciche crea dune e nicchie, concavi e convessi, sfumando il tutto in delicati chiaroscuri. Questi microscopici Jantar Mantars sono opere d’ingegno e meticoloso calcolo matematico, necessarie invenzioni per poter produrre nuova vita. L’arte imita la vita, o è la vita che imita l’arte?

MLG: Non saprei, forse né l’uno né l’altro. Ma fare arte è allontanarsi dalla vita, dalla vita terrena. Liszt e Beethoven con le loro musiche celestiali ci portano fuori dal mondo. Monet con i dipinti struggenti e velati di malinconia e Kandinsky con i suoi paesaggi cosmici (per citare due grandi maestri), ci fanno volare alto nei cieli. Anche nei miei dipinti, non ci sono tracce di vita. Ci sono invece solchi, linee e abrasioni della natura che insieme alla monocraticità del colore ci allontanano dal visibile per arrivare all’invisibile, all’assoluto. La vita è un episodio del tempo e dello spazio. Si vive per poi subito morire. Penso ai miliardi di anni che sono passati tra ere geologiche e piogge di stelle nel nostro pianeta. Una montagna non parla, ma vive per milioni di anni, così come gli oceani. L’arte è vita, nel senso pulsante di tutte le emozioni. La vita ha fame di arte per nutrire la sua anima. Anche la vita dell’universo sembra attingere energia e movimento dalla musica e dai colori dei cieli cosmici.

MF: Commozione ed empatia, visione e partecipazione. Guardare saldamente verso l’alto avendo tuttavia il punto di partenza sempre presente: questa impostazione del pensiero corrisponde a una tensione sublime. Sublimis Oculis significa guardare di sbieco. Mi viene in mente uno degli ultimi passi della Divina Commedia quando Dante, al cospetto dell’ultimo cerchio di angeli, quelli più prossimi a Dio — i serafini — si stupisce del loro pianto e gli chiede la motivazione di questa commozione, proprio loro che sono a un passo dall’assoluto. Gli angeli rispondono serafici che gli manca la carne. La tua opera racconta di spinte verso l’altro ma credo, correggimi se sbaglio, anche di terra e carne, materia e nostalgia…

MLG: Hai citato Dante, il sommo poeta. Tutti noi aspiriamo alla vita eterna, a raggiungere Dio. Papa Benedetto raccontava che da ragazzo visitando il museo degli Uffizi a Firenze si trovò davanti a un dipinto e rimase talmente emozionato e impietrito da tanta bellezza, che sentì il respiro di Dio. I dipinti sono fatti dagli uomini, ma il risultato finale sembra attinto da forze misteriose, quasi oltramondane o angeliche. La mia opera rappresenta remoti paesaggi geologici dove l’energia della luce e la purezza del colore ci rimandano alla creazione del mondo, quando la natura era vergine e incontaminata. La mia traccia sembra una spinta verso l’alto? L’umanità spinge sempre verso l’alto, con le piramidi e i grattacieli. È la nostra strada, il nostro percorso di vita e di amore.

MF: Dopo aver parlato di abissi e di sfere celesti, di sprofondamenti e repentine risalite, mi dedicherei ora al diurno, a ciò che ti impegna ora nel tuo quotidiano, non solo in quanto artista. Hai scelto di lavorare tra Milano e il Principato di Monaco…

MLG: La Costa Azzurra, dal Principato di Monaco a St. Paul de Vence fino a St.Tropez, è un lembo di costa che mi ricorda tanto la Sicilia, è un paradiso naturale con tramonti e paesaggi mediterranei ben conservati. A Monaco c’è uno scambio di culture internazionali con 143 nazionalità differenti e tanti collezionisti. I grandi pittori impressionisti hanno dipinto e vissuto in Costa Azzurra, da Léger a Matisse a Picasso e anche Monet. Quindi io proseguo la tradizione di pittori che amano immergersi nella natura. Da anni, poi, sostengo, con la vendita di alcune mie opere, la salvezza del nostro pianeta. Insieme al principe Alberto di Monaco e alla sua meravigliosa Fondazione, che spende tanta energia per la protezione dell’ambiente, abbiamo finanziato progetti di salvaguardia di aree marine, riserve naturali e biodiversità del Mar Mediterraneo, contro la contaminazione di scorie e scarichi industriali. Ma tutti noi dobbiamo impegnarci a proteggere il nostro pianeta sofferente, perché il nostro pianeta è sacro e dobbiamo consegnarlo alle generazioni future in tutta la sua bellezza.

 

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