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Elisabetta Roncati

Oltre cento opere accolgono il visitatore a Palazzo Grassi, una delle due magnifiche sedi veneziane della Pinault Collection, con affaccio sul Canal Grande. Ma “open-end”, la mostra-evento consacrata a Marlene Dumas, una delle maggiori pittrici viventi, è molto più che un’approfondita ricapitolazione della sua produzione dal 1984 fino ad oggi.

È una vera e propria indagine introspettiva che fino a gennaio 2023 ci permetterà di entrare in contatto con la parte più personale e nascosta dell’artista. Già di per sé questa caratteristica varrebbe la visita, considerando che Marlene ha dichiarato che “bisogna essere soli per fare arte”.

 

L’artista sudafricana Marlene Dumas si mette a nudo in “open-end” a Palazzo Grassi. Tra rivisitazioni del proprio passato, istanze sociali e omaggi poetici

 

Marlene Dumas dipinge spesso a notte fonda, lontano da occhi indiscreti. Pennellate veloci che tratteggiano figure umane, i ritratti ed i nudi sono i suoi cavalli di battaglia, quasi a richiamare gli schizzi che da ragazzina faceva sui pacchetti di sigarette degli amici del papà viticoltore. Un’alternanza di piccoli e grandi formati, un corpo a corpo con le tele in cui le cromie la fanno da padrone in quanto “tutta la buona pittura è una questione di colore”.

“Open-end”, il titolo del percorso espositivo, scelto dall’artista in veste anche di co-curatrice assieme a Caroline Bourgeois, richiama l’indefinitezza dell’opera d’arte, la possibilità di attribuirle significati ulteriori a seconda del vissuto di chi in quel momento la osserva.

 

Marlene Dumas
Marlene Dumas, No Belt, 2010-2016. Pinault Collection, foto Peter Cox, Eindhoven. ©Marlene Dumas.

 

Effettivamente, percorrendo le sale di Palazzo Grassi, le emozioni di un singolo individuo diventano emblema del sentito dell’intera collettività. “Open-end” è una mostra che parla di Marlene, ma anche di noi, dei tristi momenti della pandemia e della sensazione di sospensione che abbiamo esperito.

Il tempo, del resto, è un altro concetto chiave della poetica dell’artista. Lei stessa lo definisce “terrible monster”: l’incedere degli anni è dunque visto come un elemento estremamente limitante la creatività o un suo sprone?

“Dal mio punto di vista”, ci dice Caroline Bourgeois, curatrice Pinault Collection, “nel suo lavoro Marlene Dumas affronta spesso il tempo e ricorre a immagini e ispirazioni che provengono da epoche diverse: Tombstone Lovers è un’opera ispirata a una tomba medievale, Nefertiti è una figura della cultura egizia.

La temporalità è come un’ossessione per lei, ma è anche la sfida di un’opera nel tempo: la sua durata e il suo valore. Tra l’altro Marlene Dumas sta per compiere 70 anni e come ognuno di noi si chiede: Avremo il tempo di fare tutto quello che desideriamo fare?”.

D’altronde un finale già scritto, soprattutto se lieto, annoia lo spettatore: l’arte in generale e il lavoro di Marlene Dumas in particolare, non prevedono una conclusione definita, garantendo così al creatore una sorta di immortalità. Una differenza sostanziale con l’esistenza umana che biologicamente arriva, prima o poi, al termine.

Nel 2020 Marlene Dumas si è trovata più volte faccia a faccia con la morte, non ultima la scomparsa del compagno di una vita Jan Andriesse, il suo critico più severo. Non è un caso che l’opera idealmente concepita come conclusiva della retrospettiva veneziana sia proprio la sopra citata Tombstone Lovers, ispirata alla lapide funeraria di due amanti medievali.

 

Marlene Dumas, Losing (Her Meaning), 1988. Pinault Collection. Foto Peter Cox, Eindhoven ©Marlene Dumas.

 

Incedendo sala per sala all’interno della mostra, che coinvolge l’intera superficie espositiva di Palazzo Grassi, si scoprono via via ulteriori dettagli di Marlene Dumas donna, madre, oltre che artista. Il percorso, infatti, non è suddiviso cronologicamente, ma per tematiche in cui la sfera intima si combina con le istanze sociopolitiche degli ultimi trent’anni o con la storia dell’arte. Razzismo, discriminazioni sessuali, differenze di genere e lotta per i diritti delle minoranze sono solo alcuni dei temi indagati dall’artista.

È il paesaggio mentale ed etico ambiguo in cui Marlene Dumas si è formata ad aver contribuito a renderla un’artista estremamente sensibile, consapevole e ricettiva delle istanze dei “dannati di questa terra” (così definiti dalla stessa artista).

Nata il 3 agosto 1953 a 25 chilometri da Cape Town, nel pieno del regime dell’Apartheid, Marlene Dumas parlava afrikaans in famiglia: un idioma sui generis, che mixa l’olandese, il portoghese e lingue bantu. Consapevole che il flusso senza fine di immagini, da cui siamo investiti quotidianamente, interferisce sulla percezione di noi stessi e sulla nostra modalità di leggere il mondo, Marlene ha iniziato a trasporlo su tela senza incappare in falsi moralismi, influenzata da Diane Arbus.

Ecco dunque comparire nelle sue opere prostitute, parti del corpo corrose dai vizi o deformate da smorfie, profughi in cerca di asilo consapevoli che, dice ancora l’artista, “casa è dove c’è il cuore”.

Nella tela The White Disease il suprematismo bianco viene assimilato a una malattia dello spirito che porta solo a indicibili violenze e crudeltà perpetrate in tutto l’arco del ventesimo secolo. Dunque, anche quando si rivolge alla storia dell’arte o della cultura, lo sguardo di Marlene Dumas riesce sempre a cogliere ciò che va oltre le apparenze: come nel ritratto di Oscar Wilde, del suo giovane amante Lord Alfred, di Jeanne Duval o Charles Baudelaire.

Proprio all’opera postuma di quest’ultimo, Lo spleen di Parigi, è dedicata una serie recente di lavori. Inizialmente influenzata dall’amico scrittore e libero pensatore Hafid Bouazza, Marlene ha poi scoperto le molte affinità che la legano al letterato francese ottocentesco.

 

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Marlene Dumas, Red Moon, 2007

 

Come Baudelaire, anche lei è infatti convinta che “l’artista sia un artista solo a condizione di essere se stesso e un’altra persona nello stesso momento”. Ed è così che l’intensità, la sensibilità, il formalismo creativo ed accademico vengono trasformati dall’intensità della vita.

La pittura, come la poesia, si apre al mondo. Un’affinità che Marlene Dumas ha sentito anche con Pier Paolo Pasolini, ritraendo lui e la madre Susanna Maria Colussi.

Caroline Bourgeois ci spiega così le affinità o differenze tra i due creativi: “Pasolini ha osato indagare le tante e diverse derive umane. Allo stesso modo Marlene osa molto nel suo lavoro, sia nei soggetti che dipinge, sia nella tecnica e nella materia pittorica che predilige”.

Il rapporto madre-figli è un altro punto chiave che si incontra all’interno della retrospettiva veneziana su Marlene Dumas. Al secondo piano del Palazzo è esposta una serie di inchiostri su carta con interventi dell’unica figlia dell’artista, Helena. Un gioco incurante di una bambina che, all’epoca, aveva solo cinque anni, ma anche un’interazione intima, una mimesis tra chi genera e chi è generato.

“Direi che la figlia Helena, oltre a far parte della sua famiglia, è soprattutto una fonte permanente di ispirazione, il suo alter ego”, dice ancora Caroline Bourgeois. “In mostra ci sono opere che hanno addirittura creato insieme, a dimostrazione del legame indissolubile tra loro, ed è anche esposto un ritratto di suo nipote Eden: il privato e il pubblico si mescolano così come succede nelle nostre vite”.

 

Marlene Dumas, Mama als Belly Dancer.

 

Ed è così che idealmente si conclude il viaggio nell’opera pittorica e nella vicenda umana dell’artista Marlene Dumas, ricordandoci che, dice ancora l’artista, “la pittura deve essere sempre un passo indietro rispetto a noi stessi”, allo scorrere dell’esistenza. Testimone silenziosa dell’eterna lotta che ognuno di noi inconsciamente affronta: quella con sé stesso.

 

 

 

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