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Modernità di Canova

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La lezione di Canova nel contemporaneo

“Grazie a Canova la bellezza femminile è diventata universale”. Parola di Vittorio Sgarbi. E non c’è dubbio che il critico ferrarese, presidente del Mart e della Fondazione Canova, ideatore della mostra “Canova tra Innocenza e Peccato” in corso al Museo di Rovereto, abbia colto nel segno, identificando l’ideale canoviano come l’esemplificazione massima della Bellezza: il suo mito, simbolo dell’estetica neoclassica, è rimasto immutabile nei secoli e ancora oggi appare intramontabile come icona di stile, di eleganza, di bellezza.

Amato dal pubblico, dalla gente comune, dai critici e dagli studiosi, Canova è stato però, e continua ad essere, un modello anche per gli artisti, che per secoli hanno continuato a guardare al suo modello ideale, sia per continuarlo che per contrastarlo.

Così, non è un caso se oggi, a duecento anni dalla morte del maestro, con oltre duecento opere, di cui quattordici canoviane dalla Gipsoteca di Possagno, il Mart celebri non soltanto il genio del marmo e della Bellezza universale, ma soprattutto la sua eredità tramandata agli artisti del ventesimo secolo.

 

Canova
Mustafa Sabbagh, Ferite – Senza titolo, 2017, Courtesy Traffic Gallery

 

Sono scultori e fotografi suddivisi tra quelli che potremmo ironicamente definire i “buoni” – coloro che hanno tenuto fede al modello estetico originario –, e i “cattivi” – coloro che, invece, hanno ripensato i canoni classicisti, fondendoli alla propria sensibilità e al proprio modus operandi, contaminandoli, rinnovandoli, a volte anche stravolgendoli completamente.

“Canova tra Innocenza e Peccato” fa parte di un ciclo di mostre al Mart che studia l’incontro tra antico e contemporaneo, mettendo in luce continuità e contrapposizioni con un grande artista del passato. “Dopo Raffaello, Caravaggio e Botticelli, oggi vogliamo analizzare gli influssi di Canova sul Novecento, ma lo facciamo in maniera sorprendente e innovativa”, dichiara Beatrice Avanzi, che

con Denis Isaia ha curato la mostra al Mart. “È un continuo dialogo tra i due poli indicati dal titolo: innocenza e peccato. Non ci sono solo coloro che hanno seguito quell’ideale di bellezza, ma anche coloro che, al contrario, se ne sono allontanati”.

Il vero protagonista di tutta la mostra è il corpo come luogo simbolico di quella polarità, che l’allestimento giocato sul bianco e nero rafforza. Un corpo idealizzato o estetizzato per alcuni esponenti, per altri foriero di una bellezza anti-canoviana che “contempla e contiene il suo contrario. In entrambi i casi è icona”, spiega Sgarbi.

 

Elena Mutinelli, Ali di pietra, 2014, marmo, cm 83x43x25.

 

Accolgono il visitatore, nella piazza del museo trentino, Amore e Psiche, nella versione tatuata di Fabio Viale e in quella con le due figure accostate di Canova. Nella sala centrale troviamo invece la Venere Italica e Le Tre Grazie nel dialogo più emblematico con Helmut Newton, ma i gessi di Possagno continuano a convivere con le opere moderne lungo tutto il percorso.

Le Grazie interloquiscono anche con i nudi maschili in penombra di Dino Pedriali, evidenziando come per i grandi fotografi l’iconografia del corpo suggerisca la pulsione dei sensi. Anche per Mapplethorpe, che viene definito di “assoluta purezza”, nell’insinuazione del desiderio sulla texture dell’epidermide.

Ancor più peccaminosi o traditori: Miroslav Tichý, che usava una fotocamera nascosta, di cartone, per svelare fisici femminili imperfetti, Jan Saudek e Joel-Peter Witkin che portano il corpo nei territori del macabro e del grottesco.

Nel percorso fotografico ci sono anche coloro che si sono dedicati alla documentazione e all’interpretazione dell’opera di Canova: i fratelli Alinari, Aurelio Amendola, Paolo Marton, Massimo Listri, Luigi Spina, con alcune foto della serie Ferite di Mustafa Sabbagh che mostrano i modelli originali delle sculture possagnesi danneggiati durante i bombardamenti del 1917.

Ma la sezione dedicata alla rappresentazione scultorea è il cuore della mostra. Qui, infatti, troviamo magnifiche opere di artisti attivi nell’ultimo secolo, la cui pratica disciplinare porta ad attualizzare l’ideale neoclassicista nell’esempio degli antichi.

Dagli storicizzati Adolfo Wildt, Leone Tommasi, Francesco Messina e Marcello Tommasi, fino ai contemporanei Giuseppe Bergomi, Aron Demetz, Giuseppe Ducrot, Filippo Dobrilla, Ettore Greco, Igor Mitoraj, Elena Mutinelli, Giulio Paolini, Massimiliano Pelletti, Attilio Pierelli, Livio Scarpella, Fabio Viale.

Come esemplificano i titoli delle sezioni espositive, il dialogo continuo avviene tra scultori che proseguono l’ispirazione all’antichità classica e fotografi, che già partono da una rilettura disciplinarmente più libera sul supporto bidimensionale. Ma qual è l’innocenza e qual è il peccato degli eredi di Antonio Canova?

In che modo la sua bellezza idealizzata parla ancora ai moderni ed è riuscita a smuovere la loro sensibilità o la loro ricerca? A ben vedere, nessun artista degno di questo nome non può non interpretare la lezione dei suoi predecessori senza imprimerle una propria impronta fortemente originale.

Così, al Mart, non scorgiamo nessuno davvero “innocente” davanti al Dio dell’immortale levigatezza e dell’armonia proporzionale. Anche per coloro che appaiono nuovamente classici(sti), le differenze tra gli artisti di oggi in rapporto alle forme dell’artista ottocentesco sono innegabili sul piano stilistico o di poetica, ma tutti gli esponenti sono continuatori di una tradizione che va continuamente rinnovandosi.

 

Giuseppe Bergomi, Nudo su tavolino Ikea, 2021, alluminio, cm 55.5×55,5×191.

 

Secondo Giuseppe Bergomi, “la consapevolezza che la realtà per essere rappresentata debba tradursi in forma, e nel caso di Antonio Canova in una forma ideale, lo rendono più che mai attuale. La sua lezione contraddice con la violenza di uno schiaffo, l’ingenua illusione di tanta contemporaneità che l’idea sia l’elemento fondamentale e che la sua traduzione sia un problema artigianale o meccanico.

Si nega così il principio che pensiero e mano, visione ed emozione, gesto e materia siano un tutt’uno inscindibile”. Saranno due mondi opposti, quello neoclassico e quello della foto novecentesca, ma gli scultori, i nipoti “buoni” o “cattivi” di Canova, dimostrano come innocenza e peccato, siderale e terrestre, possono convivere e bilanciarsi, come nell’avvincente lettura che fece Panofsky di Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano.

Forse la virtù contemporanea sta nella desacralizzazione soggettiva di ciò che si ritiene esteticamente valido, che si insinua tra le linee della carne, o nel candore della pelle marmorea.

Per Elena Mutinelli, è ineffabile il senso della bellezza di Canova, di cui la scultrice ne studia o immagina “i sottosquadra nei segni della raspa e dell’unghietta sul panneggio, lo scalpello che definisce le ali di Eros, i torsi perfetti dei giovani efebi”, ma nello stesso tempo quel genio in stato di grazia è talmente irraggiungibile da scatenare e anticipare quella nostalgia della bellezza della poesia di Rilke. “L’ideale canoviano mi trasmette la pulsazione dell’opposto: si può essere fedeli pur con alcuni aspetti discordanti, sia disciplinari che di soggetto, come la mia versione di Eros al femminile”.

Un altro motivo per cui Canova ci sembra toccare vette sino ad allora inesplorate, nella scultura italiana, sta nella sua posizione storica. Rappresenta una vetta dopo la quale può solo esserci un declino. Non dell’arte ma del suo riferimento all’antico: quando questo tornerà alla ribalta internazionale, non esisterà più nell’ossequioso rispetto per la proporzione e l’armonia, con Picasso e le Avanguardie metaforicamente i Barbari soppiantano l’Impero.

Eppure il rapporto con il classico continua a rinascere sotto altre spoglie, magari più concettuali. Come nell’opera di Livio Scarpella che considera Canova vicino “nel modo di sentire alcuni aspetti tattili della scultura, la seduzione delle forme, l’incorruttibilità della bellezza”.

Oltre alle figure “idealizzate e cristallizzate nella purezza del marmo bianco, la delizia di particolari come un labbro, un ricciolo, uno sfioramento di dita e di membra, la sensazione di trovarsi davanti ad una visione quasi divina ma di sensualità tutta umana”, lo scultore bresciano si concentra su soggetti e materiali che “tendono a eliminare il concetto di temporalità nell’arte, fondendo suggestioni formali, mitologiche e oniriche”.

 

Helmut Newton, Big Nude I, Paris, 1980, Copyright Helmut Newton Foundation.

 

Come Sgarbi ricorda a proposito dell’artista celebrato al Mart: “dentro a due mondi complementari, nella lavorazione a caldo della terracotta e la chiusura della forma algida e candida si nasconde la doppiezza di Antonio Canova, e la sua perfezione”.

Anche Fabio Viale vede in alcune sculture del passato la forza che le rende dei simboli atemporali. “Mi sono spesso apparsi muti… unirli nella ricerca ti offre la possibilità di dialogo che crea conoscenza e consapevolezza di ciò che rende un’opera universale”. È convinzione dell’artista contemporaneo che oggi la bellezza idealizzata sia entrata nel reale, e che sia elemento di partenza per la creazione di nuovi punti di riferimento, nell’arte e nella vita.

“La trasformazione o la decorazione indelebile del nostro corpo sono un fenomeno di massa. Le mie opere sono spesso la fotografia di queste metamorfosi”. Certo che sulle sue figure in marmo con tatuaggi, come su quelle lignee con bruciature di Aron Demetz, la contraddizione della superficie levigata e ideale è da tutti avvertibile.

Ma, d’altra parte, proprio nel recuperare la memoria del classico reinventandolo, rinnovandolo e quasi sempre “tradendolo”, risiede la forza e la grande contemporaneità di questi artisti.

Al Mart l’algido Canova è riuscito a infiammare gli animi contemporanei riportandoci alle sfide estetiche del suo tempo e alle contraddizioni del nostro.

Classico o moderno? Forse noi contemporanei viviamo nell’oscillazione tra opposte energie. Dopo l’avvento della fotografia, poi del cinema, potremmo rubare le parole alla sognante Anna Karina nel film Bande à part di Jean-Luc Godard: “tutto ciò che è nuovo è per questo automaticamente tradizionale”.

 

 

 

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