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Quella mano nera che squarcia la tenebra – Il mistero della morte di Caravaggio in un libro

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Il tombolo in piena estate ardeva di fuochi fatui e riflessi improvvisi, accecanti come epifanie di anime del Purgatorio. Gli occhi dell’artista, avvezzi a vedere dentro di sé lo spettacolare potere della luce e delle tenebre quando si mischiano nell’ingranaggio arcano della Creazione, primo e unico del suo tempo, sbalordivano nel baluginio caotico, allucinato e sfrenato delle sue ultime ore di vita.

La feluca, salpata da Napoli alla volta di Porto Ercole, aveva una missione segreta: porre in salvo, ancora una volta, per le grazie di un pontefice benevolo e, a suo modo, Egli devoto all’artista, lo spregiudicato (e anche pregiudicato) Michelangelo Merisi, nell’anno di grazia 1610, a 38 anni di età. Ancora giovane, il Caravaggio, almeno nel sentimento di oggi, ma anche cinque secoli fa una vita media fortunata avrebbe meritato quasi il doppio di quegli anni prima di estinguersi.

 

morte di Caravaggio
La copertina del libro L’ultimo respiro del corvo. L’omicidio Caravaggio di Silvia Brena e Lucio Salvini (Skira editore).

 

Invece l’uomo che approdava al promontorio dell’Argentario, ancorato alla terraferma da ormeggi di sabbia emersa, era stremato e in fin di vita, ormai. Inseguiva le sue tele,  pegno per l’emendamento dei peccati terreni e viatico per la libertà concordato con Papa Paolo V, dalle quali era stato separato alla tappa precedente della crociera, a Palo di Ladispoli, perché trattenuto a terra dalle autorità. Aveva dunque ripreso il mare, una volta rimesso in libertà per intercessione papalina, anche se febbricitante e malfermo, riarso da malattie veneree, vecchie ferite da combattimento mai rimarginate, forse sintomi da avvelenamento. Delirava barcollando, cianotico e purulento, ansimando su una terra malferma, sospesa sul mare. Cadde sfinito e fu trasportato incosciente al locale lazzaretto, dove fu curato invano. Pochi giorni dopo spirò, a un passo dalle sue opere, ma privato da un morbo fatale del tempo della libertà e della redenzione in Terra. Il resto, quanto alla sua anima, è ignoto ai posteri viventi. E quanto all’opera sua, fu gloria nei secoli a venire.
I tre dipinti, una Maddalena e due San Giovanni, ritrovarono le destinazioni che ancora ce li conservano, ma è nell’ultimo dei lavori di Caravaggio che possiamo cercare, e forse trovare, le ragioni misteriose della sua morte. Il Martirio di sant’Orsola non è l’opera più intensa ed emblematica del genio della luce e dell’oscurità, però è l’opera
rivelatrice, il suo testamento. Ne sono convinti Silvia Brena e Lucio Salvini, autori detective di un ponderoso tomo uscito per i tipi di Skira nel 2019, ma non certo un instant book stagionale. L’ultimo respiro del corvo – L’omicidio Caravaggio è il titolo del libro. Suggestivo, e denso di particolari rivelatori fin da subito. Al corvo è infatti associabile per sineddoche (ma pure per sinestesia) il colore nero, ossia la cifra cromatica, o anticromatica per così dire, del Merisi. Ma le tinte del corvo evocano pure il piombo fuso in polvere, materia di cui il Caravaggio era stato strenuo e impenitente consumatore per la realizzazione delle sensazionali scene e degli ambienti drammatici nei dipinti. Aveva consumato più piombo di una canna di cannone, il giovane pittore, tanto da probabilmente restarne avvelenato.
Il Martirio di sant’Orsola, opera finale, era stato eseguito in gran fretta, durante le ultime settimane di esistenza terrena, e altrettanto rapidamente consegnato al committente, la famiglia Doria, a Genova. Febbrile e concitata era stata la composizione del quadro e la spedizione al cliente, come se Caravaggio avesse più premura di terminare quel lavoro che di rifinire le tele promesse al Papa per ricevere perdono e condono dei peccati. Perché tutta questa urgenza?
Come chi ancora cerca nella Gioconda leonardesca indizi misteriosi e prove certe di un’infinità altrettanto incerta di enigmi sulla vita del suo autore, così Brena e Salvini intuiscono che nell’ultimo dipinto di Caravaggio vi sia la rivelazione cifrata, criptica e forse addirittura nascosta intenzionalmente dall’artista come “pentimento”. Solo restauri contemporanei della tela, oggi conservata ed esposta a palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, hanno infatti riportato alla luce – una luce, come sempre, assai rivelatrice in Michelangelo Merisi – un elemento compositivo che per essere colto richiede uno sguardo intenzionale sull’intera scena: protesa furtivamente sull’addome della santa, imporporata in un rosso mantello, sporge una mano dalla provenienza impossibile, rispetto alle posture dei personaggi.
Una mano nera. È quella dell’assassino dell’artista?

 

 

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