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Chiara Gatti

«I’ll be your mirror», io sarò il tuo specchio, cantava Nico con i Velvet Underground nel 1967. Erano i favolosi anni della Factory, di Warhol, del boom economico, della società di massa, del mordi e fuggi, dell’usa e getta, del consumismo e della pubblicità-anima del commercio.

Andy veggente – secondo la dote attribuita agli artisti di saper interpretare i propri tempi e intuirne le evoluzioni – aveva presagito il rischio atroce della spersonalizzazione dovuta all’appiattimento delle coscienze e alle logiche ingannevoli della popolarità.

Il famoso “quarto d’ora di celebrità” fu la profezia efficace di una esistenza virtuale affollata oggi da schiere di followers stipati sui social e sedotti dalle gioie di un consenso effimero.

 

Tomoko Nagao, La nascita di Venere con baci, Esselunga Barilla PSP e Easyjet, 2012, stampa digitale.

 

Non potrebbe esserci immagine più iconica del Narcissus di Tomoko Nagao per inchiodare un’epoca ai suoi vizi. Il Narciso di Caravaggio, chino su quel meraviglioso specchio d’acqua cupo come una laguna del cuore, affonda qui in un girone dantesco di brand patinati che lo inghiottono nella sua vanità siderale. Flaconi di shampoo e Coca-Cola, Smart, Nescafé e borse di Louis Vuitton colmano una radura diventata un megastore. Se è vero, come intonava Nico (dietro la mitica cover con la banana), che l’amore può salvare dalla perdita del senso, anche tutto il rutilante mondo di Tomoko insegue, fra sentieri colorati coi pattern a pois, una felicità possibile. E lo fa aggrappandosi all’ironia e alla leggerezza di chi sa bacchettare col sorriso, tipico della cosiddetta corrente del MicroPop.

 

Tomoko Nagao, Trionfo della famiglia Pisani con amuchina tachipirina aspirina Calippo Samsung Dolce&Gabbana Louis Vuitton Chanel e Kitty, 2020, stampa digitale.

 

Entrando nel suo studio di Milano, dove lavora da diversi anni (è nata a Nagoya, in Giappone, nel 1976), si cammina fra i colori fluo delle sue tele, delle stampe, delle ceramiche smaltate e fra un carosello di figure, etichette, emoticon, loghi, stencil, smiley e retini. Tomoko ha le dita sottili e la grazia di una vestale in un tempio dell’advertising. Ma il suo messaggio di fondo non scivola mai in un cinismo alla Warhol; è edulcorato da una poesia che si è portata dall’oriente, dalla cultura manga, dai libri stampati su carta giapponese, best seller del “mondo fluttuante”, dove master & commander come Minwa o Hokusai registravano con calma aurea e linee essenziali dettagli di natura, agenti atmosferici, racconti quotidiani; la grande bellezza delle piccole cose.

 

Tomoko Nagao
Tomoko Nagao nel suo studio a Milano. Foto di Paola Francesca Arpone.

 

La sua eleganza è sofisticata ma disarmante quando parla di videogiochi o di Hello Kitty, l’unico personaggio nato come icona del graphic design, ma senza una storia alle spalle; la gattina col fiocco rosa declinata in mille gadget possibili, in virtù della sua dolcezza. I giapponesi direbbero “kawaii”, ovvero carino, adorabile. Tomoko sillaba piano, e quasi sussurra, mentre spiega le fonti del suo lavoro. “Per parlare a tutti bisogna usare immagini che tutti conoscono”. E misura le parole in sentenze che sembrano haiku. “Sta nella nostra cultura catturare l’istante; una grande storia in poche parole”. Per lei – ed ecco qui l’incontro fra culture – la grande storia è quella dell’arte di tutti i tempi, dove Oriente e Occidente passano al vaglio della sua rilettura.

“Sono una macchina macinatrice, guardo ogni cosa e ogni cosa viene triturata e mescolata per bene”, diceva Francis Bacon. Per Tomoko Nagao non è molto diverso. L’elogio dei brand avrebbe già dovuto fare riflettere sul rapporto fra arte e capitalismo al tempo di Warhol e sul monopolio delle multinazionali. All’arte toccava il compito (quanto mai storico) di testimoniare, sollecitare, scuotere, denunciare. Inutile dire che la lezione in technicolor del grande Andy, la quadricromia delle sue stampe in tiratura industriale, ha fatto scuola e che il tema del bombardamento mediatico, della società dell’immagine e della sovrainformazione (nell’anno del Coronavirus giunta ai massimi livelli…) nutrono anche la ricerca di Tomoko che, piegando in direzione di un’attualità viziata, si fa interprete scanzonata della nostra epoca.

L’eredità di Warhol e Disney, ma anche di Hirst e Koons, e soprattutto del suo maestro Nara Yoshimoto, affiorano fra paesaggi saturi di dettagli, in un arcipelago del merchandising. Lo sguardo si perde nello storytelling febbrile di una società dei consumi al limite del delirio, complice la moltiplicazione fobica di ogni icona, come da manuale della Pop Art. Eppure Tomoko resta miracolosamente aerea. Con mano leggera inzuppa i masterpiece del passato nelle latte colorate messe in fila ordinatamente sul suo tavolo da lavoro. In un compendio ipnotico di cultura giapponese e psichedelia, citazioni dell’arte antica, del cartoon o dell’underground, prende corpo una versione manga di ogni capolavoro finito sui libri di scuola. Con tanto di implicazioni contemporanee in salsa social.

 

Tomoko Nagao, Madonnina con stelle rosse luminose, 2018, olio su tela, cm 100×120.

 

Il Quarto Stato secondo Tomoko è una marcia di consumatori che avanzano fra aziendone italiane come Motta e Alitalia sempre in deficit. Sullo sfondo non ci sono più i campi di fragole di Volpedo, ma i grattacieli di Porta Nuova. Ben prima della satira pandemica sull’Ultima Cena con gli apostoli in Zoom, col suo sorriso timido e in abiti da ninja, Tomoko ha servito in tavola i grandi marchi del fast food; e tutti i commensali smanettavano già su google, mentre gli aerei delle compagnie low cost decollavano nel cielo di Leonardo. La sua botticelliana Nascita di Venere – manipolata in anticipo rispetto ai selfie di Chiara Ferragni agli Uffizi – non sorge dalle acque, ma dallo schermo lucido di un tablet.

La Canestra di Caravaggio ha le mele marce che ridono come emoticon. E poi le cento varianti di Kitty, che veste i panni della Gioconda, della Ragazza con l’orecchino di perla, dell’Infanta Margherita e via ritraendo. Parodie giocose. Mai dissacranti. Al contrario, eleggono il mito a icona popolare. Con arrendevole tenerezza. Come Candy Candy alias Giuditta che taglia la testa a Oloferne. Un po’ pulp (schizzi di sangue da copione…) ma femminista in revenge. E ci sta.

Stupisce un altro lavoro profetico. L’Onda di Hokusai che trascina fra i flutti l’immondizia da grande distribuzione. E, quando l’ha dipinta, non si era ancora vista sui giornali l’isola di plastica nel Pacifico; galleggiante a poche miglia da Tokyo. Uno scherzo del destino. Povero Hokusai e il suo sogno di una natura vergine e palpitante, che Tomoko ha punteggiato di lattine e hamburger mettendo in guardia il mondo dai brand che inquinano il romanticismo.

 

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