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Fabio Migliorati

Dallo zio politico ha preso passione per l’arte. E per la grande storia

 

Un italiano di mezza età e mezzo vigore non può non conoscere il cognome Fanfani, ma forse non proprio il 100% di questi sa che il superpolitico della Prima Repubblica era anche pittore.

Amintore Fanfani (Pieve Santo Stefano, 1908 – Roma, 1999) studia arte prima nella sua città natale, poi a Urbino, infine a Treviso e ad Arezzo, frequentando anche corsi tenuti da docenti-pittori più o meno noti, fino ad esporre il proprio lavoro dal 1943 in una ventina di città nel mondo, da Roma, Venezia e Firenze fino a Berlino, Los Angeles e Hong Kong. Amintore guardava a Winston Churchill come modello per la politica e per la pittura (anche lui dipingeva con risultati apprezzabili).

Dal dopoguerra, per tutta la sua vita, ha rappresentato la Democrazia Cristiana ricoprendo tutti gli incarichi istituzionali possibili, tranne la Presidenza della Repubblica. Ha cavalcato la propria (sufficiente) personalità per sbizzarrirsi in teorizzazioni curiose e discutibili, come il modello sociologico dei brevilinei e dei longilinei, e l’ha fatto con uno stile ironicamente scaltro, effervescente, sempre amabile, consapevole, reificante.

Per chi dunque non ha saputo ancora dimenticare o rimuovere tale novecentesca parabola, c’è perfino la magra consolazione di poter e dover provare una certa invidia per quella classe politica, che, magicamente, riusciva a gratificare il genere umano con decreti legge, commissioni, emendamenti di giorno, e pittura o poesia di notte, mentre i nostri onorevoli deputati – futuro delle generazioni x, y, z (fate voi) – parlano male e scrivono peggio, senza vane speranze di miglioria (fra trash imperante su social media dilaganti e letteratura dettata dal ghost writer che deve arrotondare…).

Quel cognome, comunque, oggi, continua a risuonare nel panorama culturale italiano, ma con un nome differente: Amintore ha lasciato il posto a Giuseppe. Sempre Fanfani, sempre politica, sempre cultura con la pittura. Lo zio al nipote, di sicuro senza volere.

La giurisprudenza, la letteratura, la recitazione, l’arte visiva – ecco “il mondo” di Giuseppe (Fanfani): pittore dai primi anni Settanta; pittore per spirito quasi eversivo; pittore per scelta incosciente, pura, troppo presto interrotta e ridotta dietro la scelta di opportunità professionali (avvocatura), dietro lo sguardo attivo sulla società che lo voleva capace anche d’altro (parlamentare, sindaco) e che l’ha saputo gratificare con incarichi prestigiosi (consigliere nel C.S.M., garante dei diritti dei detenuti per la Regione Toscana).

 

Giuseppe Fanfani
Giuseppe Fanfani. La sua mostra dedicata a Dante è stata da poco ospitata alla Galleria Civica di Arezzo.

 

Da qualche anno, inoltre, quel cognome riecheggia in senso visivamente letterario, nel palcoscenico teatrale e nella pittura di omaggio alla poesia: e si regala compiutezza a 699 anni dalla morte di Dante Alighieri, uno che la politica la conosceva, la viveva, la traduceva in una poesia che è sogno e incubo insieme: per vite illustri che a volte, anche solo per esservi state incluse, sono diventate celeberrime e immortali.

Giuseppe Fanfani, si legge sulla copertina di un libro a mia cura, pubblicato da Maretti Editore per documentare una mostra in corso alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Arezzo – la versione più completa del modo in cui Giuseppe (Beppe) Fanfani rende omaggio alla Divina Commedia. Così l’artista ha lavorato all’illustrazione dell’eterno scritto – dando vita a un binomio arte-letteratura che è anche soluzione del proprio essere, insieme autore e scrittore. E tale condizione si fa precipua e strumentale, perché in questa maniera egli scopre e riscopre di continuo la sua ambivalenza.

Il libro tratta la versione iconografica dell’Inferno dantesco, che l’artista realizza mirando all’emozione comunicata non tanto tramite una tecnica figurale curata e minuziosa, quanto contaminando la figura stessa di soluzioni quasi informali, immerse in atmosfere dense, cariche, turbate, stranianti – coltivando spontaneità e immediatezza: sentimenti che si lasciano voluttuosamente trasmettere all’occhio e alla mente di chi osserva.

 

Giuseppe Fanfani, L’abbraccio eterno, 2014-16, acrilico su tela, cm 150×100.

 

Giuseppe Fanfani dipinge da decenni: e lo fa con stile di Corrente, con sapore guttusiano, ma indagando volentieri il carattere letterario della poesia.

La volontà del Gruppo Corrente era quella di proporre una cultura di forte rinnovamento, con il sostegno di filosofi, poeti, letterati: da Banfi a Ungaretti a Vittorini. I giovani della generazione successiva ai Metafisici esprimevano la volontà di unirsi alla tradizione europea; ne risultava un’arte accesa di emozionalità e di fervore, un’arte vera per inflessioni linguistiche di tensione germinante, un’arte “più libera di essere avanti”.

Questa libertà è anche quella di Giuseppe Fanfani, che alla fine degli anni Sessanta inizia il suo discorso creativo nel riscoprire la figura, le scelte, le opinioni di Renato Guttuso; poi ridefinisce lo spirito del proprio lavoro, dopo il Duemila, nella necessità di allusioni letterarie; infine lo compie, in questi anni, nell’apertura a uno stile per lui inedito, quasi informale.

Quella di Giuseppe Fanfani è una via pittorica della “memoria letteraria” e, come scrisse Manzoni, mostra che “la Storia è una guerra contro il tempo: chiama a nuova vita fatti ed eroi del passato”. Giuseppe Fanfani incarna quindi l’attitudine a una soluzione di sintesi analitica: la trattazione linguistica svolge un contenuto letterario che l’artista affronta da anni, ma che dal 2016 risolve diversamente attraverso una pittura prestata all’illustrazione.

Tale percorso, infatti, non deve essere frainteso: il lavoro di Giuseppe Fanfani è pittorico, prima di tutto, e non s’inserisce, ancorché svolgendone la funzione, in quella tipicità interpretativa che costituisce il vero e proprio genere illustrativo. Dipingere, per Giuseppe Fanfani, è struttura di per sé – e diventa sentire letterario illustrato soltanto per ricaduta, specializzazione, scelta secondaria.

L’artista opera sul contenuto storico per simpatia, per identità, per empatia; l’Inferno dantesco è da anni il modo più suo di raccontare una storia della letteratura italiana, di calcare il palcoscenico, d’interpretare per essere.

Giuseppe Fanfani artista e Giuseppe Fanfani autore. Giuseppe Fanfani in pittura, in teatro, sulla pagina, in tribunale, in politica.

È così che l’uomo racconta raccontandosi, e assume i ruoli che sente suoi… per diventare ciò che è. Intorno al 2014 ho visto nascere i primi quadri di Beppe che narrano visivamente l’Inferno dantesco; due anni dopo, questo corpo di lavori diventava “Anime Prave”, prima mostra alla Galleria Civica di Arezzo; oggi, si ripercorre quell’esperienza che anche in un libro traduce le sensazioni di ora, come i ricordi di allora, in tempo tradotto, in vita suggerita, in esistenza dedicata. Ecco le Anime prave, cioè perverse, che, per male, giustamente meritano di non-vivere in eterno.

Nella pittura di Beppe, i particolari non devono determinare: volti sbiaditi, celati; dita accennate; capelli sulle spalle o ammassati sulle nuche. Niente di troppo descrittivo, insomma. La forza è collocata altrove, e la via per gustarla la regalano i piani di lettura. Dipingere, per Giuseppe Fanfani, è massa: non di materia, bensì d’energia cromatica dispersa sul fondo della veduta, in tagli “dolorosi” che, come squarci sull’ignoto dell’infinito, diffondono per equilibrio terre e cieli e rocce.

Poi il tratto: l’artista contorna; il chiaroscuro non interessa mai troppo: è suggerito, appena declinato come espansione, come tache e deriva di quel confine sempre nero. Nel discorso di Giuseppe Fanfani, quel sopito spirito del ricreare il creato compare e ricompare sempre, emerge e riemerge, sorge e risorge di continuo; si ripresenta come visione artistica del mondo, e lo fa in due forme: la scrittura e la pittura.

 

Giuseppe Fanfani, La Selva, 2014-16 tecnica mista su tela, cm 200×200.

 

C’era e c’è tutto Dante; i suoi versi interpretati o recitati, la sua musica antica. Ed è ritmica praticata sulla tela o cantata in teatro, però mai dimentica di coadiuvare una gestualità italiana che Giuseppe Fanfani ripropone e ricompone. L’acrilico al posto dell’olio, la sfumatura invece del graffio, lo scorcio e la pausa, la cromia corporale e il ritmo musicale.

E sono ancora sufficienti tre colori, quelli di un tempo: rosso, giallo, nero – per una pittura di superficie, di ampiezza, di sterminio del senso comune ritenuto ormai soltanto cliché. Il solo suo tabù, forse, si cela dentro. Beppe conferma il rifiuto dell’astratto, ma non più del suo principio: per certi versi strizza già l’occhio all’informale. Un nero smaltato e piatto ricopre parti di paesaggi alieni.

Tutto è spalmato, quando occorre, in tinte rosso-sangue che non possono più nascondere certe tracce di vita saturnina, eroica, mitologicamente vivida, quasi a squarciare un mondo che l’artista conosce ma non accetta, per stemperarne la tolleranza lasciando che sementi di giallo apollineo crescano fino a stupire.

Tutta l’opera è caratterizzata da voluta evanescenza, e carezzata con la forza della Storia: è necessità di momenti narrati, ma anche prediletti per risorsa descrittiva e rincorsa concettuale. L’artista non risponde al passato né alla letteratura; egli replica quasi senza farlo – con un lavoro mirato, convinto, adattato alla narrazione e, insieme, autonomo da essa.

Oggi, la nuova mostra integra la storia con quadri inediti; sono apporti di specifica, forse anche più dedita e incisiva trattazione, che l’artista maneggia saggiando il mondo delle cose con intenzioni esortative e inserti morali; l’azione è propositiva, vicina al messaggio, resa in gesti ma non in ruoli, poiché, chiuso nel suo ritrovarsi, si perpetua in un percorso psicologico che è denso afferire.

Come verso espressivo rituale, rivelato, quasi magico per tentazione e quasi già compiuto per attribuzione di senso, l’artista considera la materia una via per la teatralità – e ne sistema le basi, ne prevede le funzioni, ne prescrive la posa su ambientazioni taglienti per fondi ciechi e massiccio figurato. Egli lascia tracce; dissemina indizi; stratifica la sua placida ortografia che è più lessico che sintassi.

L’operazione, adatta a forgiare l’identità umana con la forza della storia letteraria, avviene attraverso la “dolce sfida” di un idioma materiale: il segreto è poter e voler redigere il testo scenografico con strumenti modernamente semiotici, che sanno servire il presente nel soccorso coraggioso del passato. La storia, dunque, definisce i confini dell’opera; dal particolare all’universale.

Dalle sembianze della forte, genuina citazione, alle certezze progredite della condivisione. L’intensità, stabilita e definita mediante la luce del sentimento, è affettivamente dichiarata: abbandonata al giudizio nella quiete di un silenzio seppure artificioso, si concede in legami di purissima emozione primordiale.

Sorgono, così, strutture di chiara solidità, che demarcano fino a debordare da loro stesse, a sancire e varcare un limine con quella zona di condivisione, di sapida trama del Tempo e della Storia come passato e futuro delle cose raccontate.

Presente, tutto è presente, irreale ma vero.

 

 

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