Colore, contaminazione, vivacità e irriverenza
C’era una volta il Pop. C’era, e non c’è più: o forse c’è ancora, eccome, ed è vivo più che mai, ma non è più possibile classificarlo, delimitarlo in una semplice classificazione a se stante, per il semplice motivo che ogni frammento di quello che un tempo chiamavamo col nome di realtà, oggi più che mai mescolata alla dimensione della nostra esistenza virtuale, appare fatalmente contaminato da atmosfere, colori, attitudini tipicamente “pop”.
Tutto, oggi, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua nascita, è diventato pop, che si definisca ancora con questo termine o meno: lo sono la pubblicità, la comunicazione, i social, la moda, la letteratura, il giornalismo, la tv, il cibo. Tutto è pervaso da quello stile rapido, veloce, gioioso, scanzonato, leggero e colorato che un tempo abbiamo chiamato con l’aggettivo “pop”.
Non è più la Pop Art come la intendevano Andy Warhol & Co., ma qualcosa, anzi molto, di quell’attitudine è rimasta, dal momento che, come diceva Warhol, “quando avrai imparato a pensare pop non sarai più in grado di vedere il mondo allo stesso modo di prima”.

Il Pop, insomma, si è insinuato nelle nostre vite, ha pervasivamente occupato ogni spazio del nostro quotidiano, si è impossessato della nostra stessa visione del mondo, o forse del mondo stesso. E così, quell’attitudine a “cogliere ciò che è epico negli oggetti e negli atteggiamenti quotidiani” (così Lawrence Alloway, inventore del termine “pop”) è oggi diventato il pane quotidiano di cui si nutrono molti degli artisti che calcano le scene del sistema dell’arte.
Anche in Italia, storicamente patria dell’arte “alta” e colta, il pop ha ormai preso il sopravvento, contagiando critici, galleristi, giornali, fiere d’arte. E soprattutto artisti.
Tra gli artisti maggiormente in voga (ancor di più dopo il successo dell’estate scorsa a Pietrasanta, con la sua banana blu che campeggiava in piazza), Giuseppe Veneziano è uno che col Pop ci ha giocato molto: Giuseppe Veneziano è senz’altro uno che col Pop ci ha giocato molto: contaminazione tra cultura alta e bassa, ironia, desacralizzazione, rovesciamento dei codici, citazioni dalla cultura popolare, trasversalità dei messaggi e del pubblico di riferimento, calembour linguistici tra titolo e significato e stesura del colore a campiture piatte sono le caratteristiche principali delle sue opere, ormai entrate a far parte integrante del nostro immaginario.
Quest’anno ci riserverà altre sorprese, con un nutrito programma di mostre (a luglio a Bologna, Palazzo Pallavicini, tra estate e autunno a New York, Germania e Seul) e incursioni nel mondo della Crypto Art (“Digital Renaissance” con Giovanni Motta).
Tra gli ultimi, indiscutibili successi dell’arte contemporanea italiana, invece, non si può non citare in questa “onda lunga del Pop” un artista sui generis, che ha rinnovato completamente i codici linguistici del fare arte, inserendo l’ultimo, in ordine di apparizione, dei linguaggi della comunicazione contemporanea, il “meme”, riportato a una dimensione “colta”, divertita e tutta giocata all’interno dei codici del sistema artistico: memorabili i suoi meme riferiti al mondo delle gallerie, dei critici, degli artisti, emergenti e storici.
Nel tritacarne di Alvigini nessuno viene risparmiato: critici paludati e mostri sacri dell’arte, galleristi e istituzioni culturali. Il suo pulpito è il profilo Make Italian Art Great Again, con un pubblico variegato: critici, galleristi, certo, ma anche studenti e moltissimi ragazzi, che nel suo linguaggio ipercontemporaneo e nella sua ironia tagliente si riconoscono.
Nel prossimo febbraio, è prevista una sua personale presso il noenato Spazio Amato (Instragram @spazioamato), intitolata “Portrait of the Art World as a Club”, sorta di rappresentazione/messa in scena di un club privato e autoreferenziale come metafora del sistema artistico.
Immancabile, nella lista degli artisti che hanno lavorato sull’onda lunga del Pop, è Max Papeschi, autore di megaprogetti che attraversano confini e stati, come quello, di qualche anno fa, realizzato in collaborazione con Amnesty International e dedicato a Kim Jong Un (“Welcome to North Korea”), che ha girato mezzo mondo con l’artista ironicamente auto-proclamatosi Ambasciatore del Ministero della Propaganda Sociale e Culturale della Repubblica Popolare Democratica di Corea.
Oggi Papeschi è in procinto di dare il via a un nuovo progetto, ancora top secret, che andrà oltre le tradizionali caratteristiche su cui l’artista si era finora basato, cioè attenzione all’attualità, continuo gioco di riferimenti tra storia e immaginario pop, ribaltamento del politicamente coretto.
Il nuovo progetto, che prenderà il via in primavera, sarà nuovo nei temi e nella forma: metà basato sul reale (come sempre, prenderà il via da una grande città d’Italia, in questo caso Milano, per andare poi in tour un po’ in tutto il mondo), e per metà sul virtuale: il suo percorso di capillare disseminazione si svolgerà infatti anche, spiega l’artista, nel Metaverso.
Il neopop di Max Ferrigno, dal canto suo, ha un passato di grande attenzione all’estetica popsurrealista e una predilezione per il pop giapponese.
Le sue Cam Girls, muse contemporanee, metà Cosplayer e metà Pin Up del ventunesimo secolo, sono la rappresentazione di fenomeni estremamente attuali: le ragazze e ragazzine che quotidianamente si mettono in posa di fronte alla videocamera del proprio cellulare o del proprio pc, per inscenare, tra chat e gruppi privati, lo spettacolo della propria vita divenuta rappresentazione di un sé sempre più estraniato dalle convenzioni e dalle regole sociali de sempre più immerso nella cultura giovanile contemporanea, tra sessualità fluida e attenzione maniacale alla costruzione di un personaggio ibrido e meticcio.
Dopo la mostra al Mec Museum di Palermo di questo autunno, l’uscita di un libro dedicato al suo lavoro (Poetica di un artista dispettoso, Serradifalco editore), l’artista ha in serbo due personali, a Milano e a Kiev, un evento durante la Biennale e una personale a fine 2022 a Johannesburg.