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Paolo Sciortino

L’Orto Botanico a Brera è sede protetta di un’intuizione e di una realizzazione di Maria Teresa d’Austria, nel consueto stile asburgico: la sede della coniugazione e della continuità di Natura e Cultura, binomio inscindibile dello spirito umano.

L’imperatrice austriaca trapiantò nel ducato di Milano tale simbolo, dotando l’Accademia d’arte, che sempre lei medesima volle ed edificò in tempi brevissimi, di un prezioso Hortus conclusus adiacente, scrigno fiorente di specie ortofrutticole, dalle più comuni alle più rare.

Ed ecco che i fiori della Kultur germanica, vox media dalle ampie significazioni, che distingue le conquiste mentali umane dal prodigio automatico e complesso del Creato e nel contempo annette i due termini in espressioni e sentimenti superiori, quali la religione e l’arte, tali opere dell’uomo terra hanno germinato e tuttavia rifioriscono lungo tre secoli insieme ai fiori e ai frutti della Natura.

 

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Mario Schifano, Per costruzione di Oasi, primi anni ’80, scultura in alluminio, h. cm 220. Foto Raffaele Stea.

 

Cultura è pure, lo sappiamo, l’atto del seminare e del raccogliere la terra, dalla terra. E tale fu l’intendimento della Gran Chioccia imperiale, quello di radunare in un chiostro custodito nelle viscere remote della città tutti i segreti della vita, umani e divini, scienza e credenza, arte e tecnica.

Non solo un campus di studio sulle piante officinali per gli studenti di medicina, anche un luogo di meditazione e contemplazione per spiriti eletti, dove per elezione – era ben chiaro all’illuminista Maria Teresa – si intende appunto quella spirituale, non quella determinata meramente dal censo.

 

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Hannu Palosuo, Les Fleurs du Bien, 2021, acciaio corten, cm 130×100×40. Foto Paolo Vezzoli.

 

Il bello spirito, addirittura il genio, può germinare ovunque, a qualunque livello della scala sociale, ma affinché fiorisca dovrà essere, appunto, coltivato. Ovvero, la natura dovrà essere allevata dalla cultura, e in essa convertita. Nel piccolo mondo vegetale di Brera procede da secoli questa misteriosa alchimia illuministica.

È questa la virtù che ha tramandato la celebrità discreta dell’Orto Botanico di Brera. Recentemente questo luogo è stato rivivificato e reso ancora più celebre. Nel senso della conoscenza che se ne deve avere, fin dalla sua istituzione, come detto, della divulgazione che merita e che attende, ancora nel dettato volontario dell’imperatrice, quest’atrio vitale del cuore di Milano.

La fama della città meneghina con il cuore in mano, ecco, è perpetuata oggi nel virtuoso intento rotariano, e specialmente, per eredità ideale con il passato, ben condotto nella prassi dall’ideale del presidente del Rotary Club Brera, Marzia Spatafora.

È a lei che dobbiamo la meritoria iniziativa di dare compimento all’intuizione di Maria Teresa: oggi – e auspicabilmente in forma stabile da oggi – Natura e Cultura si manifestano insieme nello stesso spazio e nello stesso tempo, l’arte fiorisce, o anzi meglio: rifiorisce insieme alle opere della terra.

Vasto, rappresentativo di ogni ispirazione e posizione nel sistema dell’arte, comprensivo dei meriti dei grandi artisti, storicizzati, e dei giovani o meno giovani che ambiscono a maggiore e dovuta riconoscenza, come merita pure quest’orto botanico di concezione imperiale destinato alla contemplazione del popolo, è il repertorio delle opere d’arte che vi si installa.

La rassegna presenta le ispirazioni ecologiche e ambientaliste di una varietà eterogenea di artisti che fanno parte ormai della storia dell’arte contemporanea, o che vi entreranno di diritto, dalla palma in alluminio di Mario Schifano alla schiera dei raccoglitori di pioggia di Renato Mambor, agli esemplari di foresta di pietra di Franca Pisani.

 

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Franca Pisani, La foresta di pietra, 2016, tronco d’albero di quercia, marmi pregiati scolpiti, h cm 220. Foto Paolo Vezzoli.

 

Corre un cavallo luminoso di Marco Lodola, insieme agli iconici legni stratificati di Mario Ceroli, e medita tra le essenze arboree un Buddha ultrapop di Felipe Cardeña, rilanciando ulteriori motivi di meditazione nelle cataste di libri scultura in ceramica di Alessandro Algardi.

Sul tutto cala con poderosa, ironica flemma il rinoceronte imbragato di Stefano Bombardieri e ricordano al visitatore la virtù del riciclo, con distinti approcci, Dario Tironi, con una scultura di gusto neoespressionista ricavata dai rifiuti domestici, e la genuflessa figura composta con fascine di legname di Alessandra Aita.

Ed entrano nell’Eden illuminista milanese anche altri giovani e meno giovani virgulti dell’arte nazionale che trovano degna collocazione e visibilità: Exio, che porta nel cuore di Milano, dalla natìa Sicilia, monoliti ispirati alle verità ctonie del vulcano sotto il quale l’artista è nato, il writer Willow, decoratore preciso e luminoso di spazi urbani dimenticati, con il suo segno optical pop, ormai distintivo, sintesi di gusto fanciullesco e colto, poi Sergio Fistolero, artista che ragiona su concetti monolitici educati nella forma prismatica che solo la natura riesce a donare alle cose, a parte gli artisti come lui.

E Marco Abisso, con le sue visioni di natura cenozoica rediviva, immagini immaginate di una rievocazione paleolitica che invade il presente, natura naturans che si manifesta come un’apparizione in un orto botanico educato e gentile, con la forza dirompente di una palingenesi. Non manca nemmeno Lorenzo Perrone, che ci invita a gustare l’aroma fresco delle spighe germinate dalla cultura.

 

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Willow, Notte su albero, 2021, smalto su lamiera sagomata a laser, cm 100×50. Foto Paolo Vezzoli.

 

Ancora una volta natura e cultura eliminano barriere di senso e contenuto, esprimono sé stesse in simbiosi, ma solo pochi artisti sono eletti a coniugare tali sensi. Alfredo Rapetti Mogol, figlio d’arte e genitore di nuova arte, di arte originale e propria, non debitrice di alcuna riverenza ereditaria, sebbene il germe materiale della sua espressione sia contenuto nella parola.

In principio era il verbo, certo, ma nella successione delle cose, il verbo si è fatto segno, e Rapetti lo ha fatto suo. Ne ha capito e rapito l’essenza, se ne è reso latore, ce lo ha consegnato e noi oggi, come questo orto botanico concluso, lo custodiamo con gelosia e rispettosamente lo contempliamo.

Le tavole istoriate (nel senso che contengono storie da decifrare) dell’artista sono la testimonianza vivida di un’esperienza vitale e umana che trae linfa dal proprio vissuto ma riconduce a valori intimi e personali, che finiscono tuttavia con l’essere anche specchio delle vite di tutti noi.

 

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Marco Lodola, Pegaso, scatola luminosa, cavallo cm 155×205×20.

 

Allo stesso modo, Paola Romano, indagatrice spiritica dei suoli lunari, sembra dedicarci una canzone di quelle che oggi e per l’eternità vagano nello spazio alla ricerca di qualche orecchio alieno che le ascolti, che possa ricevere il segnale terrestre che offre l’arte umana all’universo. L’artista, qui degnamente rappresentata, porge allo spettatore la faccia chiara dell’astro notturno ma se ne intuisce anche quella scura, tale è la potenza evocativa del suo canto.

Tutto è chiaro, tutto è pulito e terso, nella freschezza rugiadosa, oggi brinosa, perciò ancora più fresca, della natura dirompente che la città non ha addomesticato, ma ha protetto nella sua intrinseca proprietà selvaggia. Ciascuno con linguaggio originale proprio, di tecnica, ispirazione e materiali, ben modulato sulla chiave tematica della mostra, gli artisti accolti nell’orto botanico braidense hanno esaudito il mandato richiesto: condurre le ragioni dell’arte a contatto con il mondo naturale.

E così l’orto botanico concluso riceve pure il sempreverde Gino Marotta, il visionario del Novecento, che dagli altopiani appenninici sud italiani, dalla remota Campobasso dove nacque, ebbe in dono la preveggenza sul futuro tecnologico in cui l’umanità si trova oggi immersa.

 

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Felipe Cardeña, La parole obscure du paysage intérieur, 2013, materiali vari, cm 68×50×37.

 

Straordinarie, e meritevoli dei riconoscimenti che l’artista ha avuto in vita (una Quadriennale romana, una Biennale veneziana, prestigiose commesse per le grandi istituzioni, acquisizioni dai grandi musei, raffinate pubblicazioni) sono state le intuizioni sulle forme, i colori e le luci di un progresso visivo e tattile che negli anni Cinquanta del secolo scorso nessuno avrebbe immaginato.

Vediamo placide scene della Savana, animali che si abbeverano in oasi tranquille, ma la natura animale e vegetale sembra, nelle realizzazioni di Marotta, appartenere al ricordo di una specie aliena, o di millenarie generazioni successive all’umano presente.

L’abitudine alla distopia, immaginata e quasi ormai vissuta dai contemporanei, non ci deve distogliere dalla sorpresa del genio di un maestro nato in un mondo primitivo, ma capace di vedere e prevedere oltre l’orizzonte dello scibile. Segue l’essenziale, quasi francescano Marco Pellizzola e il ben ritrovato Alberto Gallingani.

Unica presenza indoor all’Orto botanico di Brera, ma più che mai pertinente per prestigio e preziosità, quella di Mario Ceroli, con una piccola serie di opere affisse, contenute in cornice, dunque non adatte all’esposizione esterna.

L’artista celebre per le sagome lignee replicate all’infinito è testimoniato con camei di studio particolarmente rari: farfalle, profili umani, un glossario a uso pedagogico e scientifico e uno splendido dittico cernierato che, per geniale casualità, evoca con sublime precisione il tema della mostra: la relazione intima tra natura e cultura in un rimando quasi sinottico tra strumenti per il disegno e icone vegetali disposte a schiera ordinata, con gusto da botanista flaneur. E l’orto botanico dell’arte innestata nella natura, infine, è protetto e aperto al pubblico dalle cancellate floreali di Hannu Palosuo. Ovvero: i fiori del bene offerti dal cuore segreto di Milano.

 

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Gino Marotta, Nuovo Paradiso, 2010, metacrilato e luce artificiale colorata, cm 100×100×15.

 

 

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