“In Pablo Atchugarry i titoli, quando ci sono, sono perlopiù metaforici e non alludono necessariamente ad un’iconografia che è perlopiù assente nella sua arte”.

La scorta, tuttavia, finisce presto perché le richieste sono davvero tante da tutto il mondo e inchiodano questo maturo artista allo sgabello di lavoro per giornate intere. Quest’oasi di bianco viene qua e là puntellata da blocchi di marmo nero del Belgio, di marmo rosa del Portogallo o di marmo grigio Bardiglio. Per un un’artista che nasce pittore negli anni ’70, tuttavia, non sarebbe stato possibile non farsi tentare da una paletta colori che includesse anche i colori primari: il giallo, il rosso e il blu.
È così che è nata in Pablo Atchugarry, da circa quindici anni, la necessità di iniziare a lavorare il bronzo per poi potersi permettere di colorarlo con fiammanti rossi o profondissimi blu. Avvertita la mia curiosità, comincia a sballare una grande scultura che era pronta a partire per Palma di Maiorca e improvvisamente il capannone, prima avvolto da una foschia biancastra data dalla polvere del marmo, si accende come un tramonto infuocato.
Potere del colore e della lucidatura che rende la superficie una sorta di specchio nella quale tutto si riflette. Il fatto di lavorare per commissioni non significa rinunciare alla creatività perché nel suo caso il committente non è né più né meno che qualcuno che si mette in lista d’attesa per ottenere l’agognato premio, potendo esprimere non più di una necessità in merito alle misure.
È impressionante come tutto quello che vedo di finito abbia una destinazione già definita, sia essa Ginevra, la Germania o il Belgio. È una lista d’attesa che si allunga giorno dopo giorno ed è determinata dalla sua volontà di lavorare personalmente ogni blocco di marmo, quindi le sue mani sono il primo ostacolo ad una produzione inadeguata alle richieste generatesi con il successo che negli ultimi anni si è ampliato all’intero pianeta e ha solo avuto l’effetto di allungare i tempi d’attesa per gli smaniosi compratori.
La situazione non cambia quando ritorna in Uruguay perché nel suo paese natale possiede, oltre a una celeberrima Fondazione che porta il suo nome, un altro atelier. Può capitare che le sculture viaggino da uno studio all’altro, e quindi da un continente all’altro, semplicemente per essere terminate. Il perché di questo doppio sforzo di avere due studi è racchiuso in una bellissima risposta: “Perché inseguo la luce” e quindi di entrambi i continenti vive le stagioni più luminose per permettere alla luce di insinuarsi nella materia e disvelargli i suoi segreti.

Nella nostra conversazione non affiora mai il nome di Constantin Brâncuşi ma è il convitato di pietra, perché è innegabile che anche in Pablo Atchugarry la materia marmorea diviene la sostanza stessa della forma artistica. In Pablo Atchugarry i titoli, quando ci sono, sono perlopiù metaforici e non alludono necessariamente ad un’iconografia che è perlopiù assente nella sua arte. C’è una ricerca ascensionale che tradisce l’anelito tipico dell’artista di fungere da ponte tra la terra e il cielo, tra la materia e lo spirito, tra l’uomo e il divino.
L’ascensionalità indica una direzione, invita a guardare quello che non conosci e se la lavorazione dei blocchi non ponesse dei limiti, le sculture sarebbero destinate a non finire mai. Questa lunga storia nasce con la prima scultura in marmo iniziata a Carrara nel 1979 e completata a Brescia per un cliente di Lecco, città in cui era approdato quasi per caso seguendo un’artista italiana che aveva conosciuto negli anni settanta a Parigi.
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