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Valeria Tassinari

Nelle stanze di Henriette, diva e musa

 

Palazzo Fortuny
Un’immagine dell’interno di °Palazzo Fortuny. Foto @Massimo Listri, courtesy Palazzo Fortuny.

 

Vicino alla grande finestra dell’ultimo piano, affacciata sui riflessi d’oro del rio veneziano, sembra ancora di poter vedere la padrona di casa: diafana, assorta nel lavoro, Henriette con i capelli raccolti e il pennello in mano, intenta a dipingere gli stampi con i quali renderà unici i tessuti leggeri, stesi lì accanto.

Henriette, immersa nella luce e nell’odore pungente degli inchiostri, che si mischia a quello placido della laguna.

Henriette Nigrin, non solo la musa, ma la mano operosa, l’organizzatrice, il motore creativo, l’altra metà del laboratorio Fortuny.

Nella foto d’archivio che la ritrae, lavora infilata in un comodo grembiule da atelier; nulla a che vedere con i suoi sinuosi Delphos, quelle carezze di seta plissé che avvolgono le forme femminili, come l’onda di una brezza arrivata direttamente dall’antica Grecia, un soffio sul corpo capace di trasformare le donne in divinità terrene, finalmente libere di sentirsi addosso la carne e la pelle.

Eppure il Delphos, quell’abito lungo che, dalla Marchesa Casati in poi, tutte le donne hanno desiderato, era nato proprio sulla sua figura. Glielo vediamo addosso in altre fotografie, e si capisce che le sta alla perfezione, perché Henriette è bella, delicata, morbida, ma è anche emancipata, e forse per questo ha inventato un modello d’abito liberatorio e rivoluzionario, che presto è entrato nella storia della moda, rendendo immortale la fortuna del marchio Fortuny.

Che l’invenzione sia stata di Henriette ha voluto ricordarcelo Mariano Fortuny stesso, in un appunto vergato ai margini del brevetto del modello, che fu depositato come un tesoro.

Mariano Fortuny y Madrazo – pittore, figlio d’arte, scenografo, “inventore”, andaluso di nascita e veneziano d’adozione – era l’uomo di cui lei si era fatalmente innamorata, e che aveva seguito lasciandosi alle spalle un marito e Parigi.

 

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Il Ritratto di Henriette Fortuny realizzato dal marito, il pittore Mariano Fortuny y Madrazo.

 

Un uomo eclettico, dai molti talenti e ben riconoscente del valore della sua musa tanto che, parlando della loro impresa, senza esitazioni mette lei per prima: “Ma femme et moi, nous avons fondé, au Palazzo Orfei un atelier d’impression suivant une méthode entièrement nouvelle…. Cette industrie a commencé par des châles en soie et s’est développée avec des robes”.

“Mia moglie ed io abbiamo fondato un atelier” è un riconoscimento del ruolo femminile non affatto scontato, più di un secolo fa. Palazzo Pesaro degli Orfei in campo San Beneto, per tutti Palazzo Fortuny, è un reliquiario tardogotico incastonato nello splendore decadente che intreccia il rio alle calli. Una residenza affascinante, degna di una coppia che, alla moda e un po’ clandestina, assapora pienamente il nettare della Belle Époque.

Henriette e Mariano Fortuny sono legatissimi, ma la loro intesa, nata dalla passione, si rivela anche condivisione di intenti, e una motivazione pragmatica a diventare qualcosa di più li spingerà ad aprire in casa un innovativo laboratorio.

La maison-atelier si articola tra sale di rappresentanza, spazi privati e spazi di lavoro, ed è un luogo iconico, in cui si ambientano perfettamente creatività e mondanità, ideazione e produzione d’alto artigianato; un centro propulsore e catalizzatore di interessi che, grazie allo spirito intraprendente di entrambi, si svilupperà fino a dare lavoro a un centinaio di dipendenti, in una “fabbrica” rinomata per i brevetti nell’illuminotecnica, nella fotografia, nell’arte dei tessuti.

La storia di questa stretta commistione sentimentale, creativa e imprenditoriale inizia nel 1907, quando all’interno del palazzo viene ufficialmente istituito il laboratorio per la stampa su tessuto, dove Henriette e Mariano realizzeranno non solo i loro richiestissimi abiti di ispirazione ellenica – i Delphos e gli impalpabili scialli Knossos – ma anche capi in velluto di seta, dalle cappe ai burnous ispirati all’abbigliamento tradizionale magrebino, dai mantelli alle giacche, dai caftani ai costumi teatrali fino ai coloratissimi tessuti per l’arredamento.

 

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Un’immagine dell’interno di Palazzo Fortuny. Foto @Massimo Listri, courtesy Palazzo Fortuny.

 

Qui lo chic parigino è coniugato a un’ispirazione per l’altrove che si esprime apertamente sulle pareti, nei dipinti di gusto orientalista ma che prende forza e forma tattile soprattutto nei tappeti, nei cuscini, nelle preziose raccolte di abiti esotici collezionati come modelli e fonte di ispirazione.

Custodita dietro le elaborate polifore aperte su Venezia – porta d’Oriente e d’Africa – una trama di motivi ornamentali, di dettagli ricamati e stampati, di arabeschi moreschi si dipana per inseguire una sensualità da tenda berbera, fragrante e colorata di spezie, lapislazzuli ed essenze.

Sarà per questo che, salita la scala di legno, ti senti avvolgere come se la stanza ti vestisse di un tiepido languore. Palazzo Fortuny è un’esperienza tattile da vivere con lo sguardo. I colori, le textures, le trame, i disegni stampati, le frange, i bottoncini, i fiocchi, i nastri. Le carte, le terrecotte, le ceramiche, i vetri. Appena varchi la porta della prima sala del piano nobile senti le dita inquietarsi, il desiderio di toccare che devi trattenere, come sempre in una casa museo, qui appare come una limitazione percettiva quasi insostenibile.

Un respiro mediterraneo accosta e rimescola le tavolozze tra Gotico e Rinascimento, ma qui soffia anche un vento del nord, e l’esotismo arabeggiante si accorda perfettamente con i grafismi essenziali della Mitteleuropa, si confonde tra intrecci di fiori e rampicanti germogliati direttamente dai modelli inglesi di Art and Crafts, mentre qualcuno suona spartiti wagneriani. Henriette e Mariano Fortuny hanno portato il mondo dentro le mura domestiche con la disinvoltura di chi sa viaggiare e tornare, con intensità e leggerezza.

 

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Un’immagine dell’interno di Palazzo Fortuny. Foto @Massimo Listri, courtesy Palazzo Fortuny.

 

L’élite culturale cosmopolita che frequenta i salotti veneziani farà di questo luogo una tappa obbligata, alla ricerca dell’eleganza e di un gusto sofisticato che non può non ammaliare. Le sale si susseguono a passo felpato, tra oggetti da collezione, fotografie, documenti. Heriette ritorna nei dipinti di Mariano, vibranti di luce impressionista, tra ritratti di bellezze varie, nudi sinuosi, modelle in posa, ritratti dei loro figli.

Tra gli autori dei dipinti che coprono le pareti ci sono molti amici e anche il padre Mariano Fortuny y Marsal, che ha dato al pittore sangue catalano e gli ha trasmesso la passione per i neri di Goya. Parlando di neri, tra i tessuti esposti nel salone di rappresentanza ci sono i velluti cupi dell’apparato funebre del quattordicesimo duca di Lerma, Fernando María Fernandez de Córdoba y Pérez de Barradas, ucciso durante la guerra civile spagnola nel 1936: persino la morte, qui, ha una raffinatezza sontuosa.

Gli armadi aperti, i tappeti dispiegati sui pavimenti, i cuscini, i vestiti sono il campionario della “ditta” e al contempo la cornice di una vita vissuta nell’arte e per l’arte. Il giardino d’inverno, affacciato sul lato opposto dell’atelier, è un quadro aromatico, una “camera picta” dove sosteresti a lungo, immergendoti nei festoni di fiori e nell’azul per respirare l’immaginario di Mariano Fortuny , che lo ha interamente decorato tra il 1915 e il 1940, ispirandosi alla grande decorazione barocca e alle leggende nordiche wagneriane.

Acceso dalla freschezza delle piante di limone, che crescono così bene accanto alla vetrata, l’invernadero sembra ancora attraversato dal leggero fruscio di un abito tanto amato da Albertine, che Marcel Proust ha voluto ricordarlo nella Recherche: “quelle vesti di Fortuny fedelmente antiche ma potentemente originali (che) facevano comparire come uno scenario, ma con maggior forza rievocativa, perché lo scenario restava da immaginare, la Venezia tutta impregnata d’Oriente in cui esse sarebbero state indossate…”.

 

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