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Alessandra Redaelli

Quando Raffaello Sanzio muore nella notte tra il 5 e il 6 aprile del 1520, dopo dieci giorni di malattia e febbre, si spegne il mito e incomincia la leggenda, che lo vuole agonizzante sotto la grande tela della Trasfigurazione testé realizzata per il cardinale Giulio de’ Medici – ancora fresca – praticamente in odore di santità (suona strana a molti, tra l’altro, la perfetta coincidenza dell’ora del decesso con quella di Cristo: alle 3 del mattino di venerdì santo).

Sulla causa di quella morte, però, aleggia il mistero. La febbre alta che dall’oggi al domani lo costringe a letto, lo fa massacrare di salassi e poi lo uccide, da qualcuno è interpretata come malaria, da qualcun altro – si sussurra – come conseguenza di un avvelenamento. Sarà Vasari, però, a dare il suo sigillo a quella che diventerà la spiegazione più accreditata: eccessi amorosi. Bello, ricco e famoso, in effetti l’artista non fa fatica a incontrare il gusto delle donne. Cosa che gli piace parecchio. E anche il caso ci mette lo zampino.

 

Raffaello Sanzio, La Fornarina, 1520 ca., Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma.

 

In una Roma letteralmente invasa dalle prostitute – le più richieste dai cardinali sono le cosiddette cortigiane honeste, che sanno di lettere e di poesia, ma non mancano certo i clienti a quelle di lupanare – l’artista prende casa in via del Borgo, a pochi passi dalla residenza della escort più ambita della capitale.

Divina Imperia (questo il nome d’arte che si è scelta la bella Lucrezia Corgnati) è la regina dei salotti. E delle camere da letto. Figlia di una prostituta, suo padre è il maestro di cerimonie di Giulio II, Paris de Grassis, e ciò le permette di ricevere una squisita educazione umanistica e di mostrare modi da gran signora. Tra i suoi clienti eccellenti figurano Matteo Bandello e il bibliotecario del Papa (nonché campione di eleganza) Tommaso Inghirami.

Ma la sua fonte di reddito principale è il potentissimo banchiere Agostino Chigi. Vicini di casa, Raffaello e la Divina si sono incontrati più volte e lui è diventato uno dei suoi più assidui frequentatori. Spogliarsi davanti al fascinoso artista – che non disdegna i suoi servigi professionali – offre diversi benefit alla donna, uno fra tutti quello di appagare la propria vanità, vedendosi immortalata da quello che, si sa già, sarà uno dei più grandi. Magari proprio in quelle sale dove gli uomini che lei frequenta al buio, alla luce del sole mostrano tutt’altro volto. È lei infatti la Saffo che Raffaello dipinge nel suo Parnaso per la Stanza della Segnatura, in Vaticano. Ma soprattutto è lei che anima – in un eccitante triangolo amoroso – le decorazioni per cui il suo amante Agostino Chigi incarica Raffaello nella nuovissima Villa Farnesina.

Lì la Divina presta il corpo a Galatea (un po’ mascolina, a dirla tutta, con le braccia muscolose e un ginocchio da quarterback). E la somiglianza – il faccino tondo, l’occhio un po’ stolido e la boccuccia a cuore – fanno pensare che sia lei anche nella loggia di Amore e Psiche, sempre alla Farnesina. Ora, tuttavia, Raffaello comincia a essere distratto: proprio mentre si concede una pausa dalla decorazione della villa, passeggiando per le strade di Trastevere, in via Dorotea, alza gli occhi e vede, affacciata a una finestra, una splendida fanciulla che si pettina, asciugando i capelli al sole. Una mora di fuoco con gli occhi furbetti da cui resta folgorato. Divina, a questo punto, fa in fretta a diventare l’ultimo dei suoi pensieri.

E lui non resta nemmeno troppo turbato quando questa decide di avvelenarsi, non si sa bene se per il fatto di essere stata sostituita come musa favorita del pittore, se perché uno dei suoi grandi amori, il facoltoso Angelo del Bufalo, per l’ennesima volta ha fatto un passo indietro dopo aver promesso di lasciare la moglie, oppure – più probabilmente – perché l’amante in carica numero uno, quell’Agostino Chigi banchiere della Curia che sta diventando più ricco del Papa, l’ha sostituita con la giovane e ben più fresca Francesca Ordeaschi (oramai la donna ha la veneranda età di trentun anni); quella Francesca che lui alla fine sposerà, facendola signora della villa decorata con l’effigie della “vecchia” amante.

Ma tant’è: di questo Raffaello, come dicevamo, non si preoccupa. Ora tutto quello che vuole è ritrarre compulsivamente la sua nuova fiamma, quella che passerà alla storia come “la fornarina”. La ritrae a seno nudo, con un velo a coprirle il pancino tondo, lo sguardo ammiccante e un braccialetto che porta il suo nome; la ritrae velata, elegante come una nobildonna con la mano – nel caso a qualcuno fosse sfuggito – nella stessa identica posizione dell’altro ritratto, quando si accarezzava un capezzolo.

E poi, non pago, decide addirittura di dare il suo volto a tre Madonne: la Sistina, quella della Seggiola e quella di Foligno. Ora, che quello tra Raffaello e Margherita Luti sia stato un grande amore nessuno lo mette in dubbio (alla sua morte la ragazza si ritirerà nel Convento di Santa Apollonia, e i documenti ritrovati lì, sui quali appare la parola “vedova”, fanno pensare a un matrimonio segreto con l’artista), sul fatto che lei fosse una fanciulla onesta e timorata,
come la leggenda vuole, qualche dubbio in effetti c’è.

Cosa diavolo ci faceva una brava ragazza affacciata alla finestra ad occhieggiare sui passanti con le chiome sciolte al vento? A leggere Pietro Aretino questo era uno dei metodi codificati con cui le prostitute adescavano i clienti. E, diciamolo, quell’appellativo di “fornarina” si presta a doppi sensi piuttosto evidenti.

Non sarebbe del resto né la prima né l’ultima cortigiana ad innamorarsi e poi a finire la sua vita in convento. Insomma, eravamo rimasti al divino Raffaello agonizzante, circondato dal pianto degli amici, dei committenti che vedono sparire la gallina dalle uova d’oro e dell’inconsolabile “fornarina”. Ma proprio lì accanto, alla base di quella Trasfigurazione che il cardinale Giulio de’ Medici, tra una lacrima e l’altra, sta già pensando dove collocare, fanno bella mostra di sé una schiena nuda, un profilo greco e una solida natica che tende birichina il tessuto lucido.

Chissà se prima di esalare l’ultimo respiro Raffaello avrà pensato un po’ anche a lei, a Giulia “la bella”. Un’altra concubina eccellente passata – si fa per dire – sotto il pennello dell’urbinate. Già, il sentiero del pittore qualche anno prima si era incrociato con quello di Giulia Farnese. Niente a che vedere, intendiamoci, con una cortigiana – per quanto honesta fosse – come la Divina Imperia, e nemmeno (passatemelo) con una “fornarina” che buttava al vento le chiome per farle asciugare al Ponentino e acchiappare clienti.

La bionda Giulia era quella che, poco più che bambina, aveva sostituito la giunonica Vannozza Cattanei nel cuore (e tra le lenzuola) di Papa Alessando VI Borgia. Quando Raffaello la ritrae nel 1505, quella che era stata soprannominata la “Sponsa Christi” ne è oramai la vedova, visto che Alessandro è morto due anni prima. Chi può dire se nella pausa tra il ruolo di concubina papale e quello di signora di Afragola (dopo aver sistemato la figlia tredicenne col nipote del nuovo papa Giulio II, la bella, che evidentemente non è solo bella, trova anche un ottimo partito in Giovanni Capece Bozzuto, signore di Afragola, per l’appunto), Giulia non abbia concesso le sue grazie anche al pittore? Il quale, con squisita ironia, decide di metterle tra le braccia un “liocorno”, simbolo universale di castità.

 

Raffaello
Raffaello Sanzio, Dama col liocorno, olio su tavola, 1505-1506 ca., Galleria Borghese, Roma.

 

Poi, più di un decennio dopo, forse incapace di dimenticarla, con buona pace della sua Margherita che lo osserva da dietro al cavalletto con gli occhioni adoranti, è lei quella che lui sceglie per collocarla nello snodo cruciale della sua ultima opera, femmina michelangiolesca tutta luce e carne.

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