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Paolo Sciortino

“What’s my line” è stato un longevo e molto popolare game show della televisione americana degli anni Cinquanta. Una giuria bendata di celebrità del jet set cultural-mondano doveva indovinare chi fosse l’ospite misterioso, attraverso domande mirate le cui risposte potevano limitarsi al solo “si” o “no”. Una di quelle volte l’ospite era Salvador Dalí, che alla domanda: “Lei è uno scrittore?” rispose “sì”, con ferma convinzione.

In deroga alle regole del programma, dopo una breve e felpata consultazione con l’ospite, il conduttore (che si chiamava proprio come l’ospite, ma all’americana: John Charles Daly) ammise per buona la risposta, pur avvisando la giuria bendata che quella dello scrittore non fosse da considerare la principale occupazione dell’ospite. Gli chiesero allora se fosse uno sportivo, un pensatore, un performer, e varie altre possibilità. Lui disse praticamente sempre “sì”. E ogni volta gli fu concesso, pur sempre puntualizzando la necessaria distinzione.

 

Salvador Dalí
Salvador Dalí

 

 

La giuria indovinò l’identità dell’artista solo quando lui rispose con fiera convinzione affermativa alla domanda: “lei porta dei mustacchi caricaturali?”. Persona, personalità e personaggio hanno fatto di Salvador Dalí una creatura letteraria, oltre che artistica, poetica, filosofica e politica del Novecento e di ogni altra epoca, in ogni luogo del mondo.

 

“Salvador Dalí e Garcia Lorca hanno individuato la verità delle cose nella rappresentazione della deformità duttile delle cose, fino a rappresentare il tempo medesimo in cui le cose accadono come deforme”

 

È questo il destino del genio quando esso davvero s’incarna: non può non risultare riconoscibile, anche a occhi bendati. Letteraria è stata l’intera vita del pittore catalano che ha inventato gli orologi molli adagiati su piani inclinati, come tempo fiaccato e deformato della vita interiore dell’umanità.

Della vita sotterranea, nascosta e vera di tutti noi contemporanei Salvador Dalí ha riferito un racconto incessante, immaginoso e iperbolico, continuamente spinto lungo una traiettoria indefinitamente cangiante di invenzioni e proposte inaudite della rappresentazione della condizione umana.

Un racconto, dunque letteratura. Fatale, infatti, l’incontro con Federico Garcia Lorca, che l’artista definì: “il fenomeno integrale e supergelatinoso della poesia universale”, in una remotissima intervista a Carlo Mazzarella.

“Supergelatinoso?”, chiedeva un poco smarrito il bravo cronista culturale. “Un fenomeno che si può capire solo attraverso la conoscenza del metodo paranoico-critico”, spiegava il genio surrealista. “Ovvero la massima capacità di conoscenza per l’uomo relativamente alle strutture blande. Perciò io vado dipingendo da sempre orologi molli”. Chiaro, no?

Salvador Dalí e Garcia Lorca hanno individuato la verità delle cose nella rappresentazione della deformità duttile delle cose, fino a rappresentare il tempo medesimo in cui le cose accadono come deforme.

E l’incontro tra arte e poesia è avvenuto nel territorio di confine tra la letteratura e l’arte. Mirabili, memorabili, pregne di senso e purezza letteraria, oltre che naturalmente del noto spirito autocelebrativo, le parole scritte da Salvador Dalí ne La mia vita segreta, scritta a 37 anni.

 

Salvador Dalí, Pegasus, 1968, interventi pittorici su acquaforte, cm 50×70.

 

“I miei genitori mi avevano dato lo stesso nome di mio fratello: Salvador, e, come il nome indica chiaramente, ero destinato a salvare il mondo dalla vacuità dell’arte moderna, e a farlo precisamente nell’abominevole epoca di catastrofi mediocri e meccaniche, a cui abbiamo il desolante onore di appartenere”. Letterario era il dandy, l’aruspice, il profeta, il censore della

sua specie, quella degli artisti, che solo riconosceva il genio “demoniaco” di Picasso, come disse, comparato e contrapposto al suo genio, “angelico”. Letterario è stato questo interprete smodato delle viscere delle coscienze, che Freud in persona definì “il più fanatico” che avesse mai incontrato. E pure ascetico, nella rinuncia all’amore fisico con la moglie Gala: “Ho imparato a riconoscere nell’amore non consumato, una mia potentissima arma”, scrisse, da scrittore esperto, forse anche per potere meglio ascendere alle vette della raffigurazione del surreale, ovvero del reale esplorato nelle retrovie del sentimento.

Dalí si misura, ormai artista maturo, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, in uno stato di consapevolezza che trascende ormai sé stesso, con gli spiriti magni della letteratura, da pari, ma con una strumentazione distinta dalla parola, trascendente finanche da essa. L’illustrazione della Divina Commedia fu commissionata a Salvador Dalí, nell’imminenza del settecentesimo anno dalla nascita dell’Alighieri (nel 1965), dal governo italiano.

Egli vi attese, con sommo impegno, ma alla fine l’Italia non pubblicò né acquistò mai le tavole, cento xilografie, una per ogni canto dell’opera più la copertina, 35 matrici per ciascuna tavola, per un totale di 3500 incisioni a rilievo. Una fatica letteraria immensa, che pur avendo visualizzato sublimemente il sogno di Dante, Salvador Dalí espose nel 1960 al Musée Galliera di Parigi, non in Italia. Solo nel 1964 l’editore Salani, nella Arti e Scienze, pubblicò l’opera dell’opera, “a miracol mostrare”, pure al pavido e timorato pubblico nostrano.

 

 

Ma Dante e Salvador Dalí sono coevi, esistono e sentono allo stesso modo, nello stesso spazio e nello stesso tempo “gelatinosi”, deformati. Identiche sinestesie sono incorse tra l’artista e Miguel Cervantes, Lewis Carroll, Ovidio, Boccaccio e Rabelais, e altri ancora. Sempre replicando la casualità e l’incanto di incroci spirituali che non tutti coloro che non hanno un destino comune possono sperimentare.

Agli altri, a tutti noi, resta però il privilegio di vedere, tradotti nella lingua letteraria del segno, della forma e del colore, il Paese meraviglioso che ha visto Alice, di attraversare aride sierras sudando sotto lo stesso elmo sgangherato di Sancho Panza, di rapprendere in una vista simultanea l’intera cosmogonia classica, di ridere e godere sguaiatamente insieme a nani e a giganti.

Un mecenate italiano assai devoto e assai colto commissionò a Dalí l’illustrazione della Bibbia, alla fine degli anni Sessanta. L’opera, 105 tavole, fu poi pubblicata in copie limitate da Rizzoli. Nell’incontro, al culmine della metafora letteraria, tra il Verbo e l’immagine, vi fu autentica alchimia, e l’oro impiegato nella tecnica litografica si tramutò in puro spirito.

 

 

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