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Marzia Spatafora

Curatrice capo al Centre Pompidou, Christine Macel è autrice di mostre importanti storiche e contemporanee. L’ultima in ordine di tempo, che a breve sarà ospitata al Pompidou di Shanghai, è dedicata alle artiste donne che hanno influenzato la storia dell’astrazione mondiale

 

Christine Macel è una curatrice d’arte. Dal Duemila è Chief Curator del Centre Pompidou di Parigi, dove ha creato e
sviluppato il Dipartimento di Création Contemporaine, ed è anche ideatrice dell’Espace 315 dedicato ai giovani artisti.

Colta e sofisticata autrice di molti saggi, libri, cataloghi e articoli d’arte, Christine Macel nel 2017 è stata direttrice della Biennale di Venezia con “Viva arte Viva”, dove ha dato centralità assoluta al lavoro e le idee degli artisti impegnati nel sociale, mettendo da parte il sistema con le sue regole fin troppo abusate.

Dell’arte Christine Macel dice: ”L’arte è l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare aldilà delle mode e degli interessi specifici”. “Elle font l’abstraction” è la sua mostra più recente, da poco chiusa al Guggenheim di Bilbao, dopo il Pompidou, interamente dedicata all’astrazione al femminile, e prevista in una nuova versione per i prossimi mesi al Centre Pompidou Westbund di Shanghai.

Abbiamo rivolto alcune domande a Christine Macel per capire com’è nata la mostra dedicata alle donne astrattiste, qual è la sua idea di curatrice e quali sono i suoi progetti futuri.

 

“Nell’attuale contesto sanitario e geopolitico, i musei dovranno rifocalizzarsi su un pubblico più locale e non solo sul turismo”.

Christine Macel

Christine Macel
Christine Macel. @Foto J.C.Planchet.

Christine Macel, con la mostra al Pompidou “Elles font l’abstraction” ha scelto le artiste donne per ricominciare dopo la pandemia. Intende far voltare pagina al mondo dell’arte con una scelta di genere?

La prima mostra di artiste donne è stata organizzata, che io sappia, nel 1934 con 13 pittrici da Katherine S. Dreier, co-fondatrice nel 1920 della Société anonyme de New York. La Dreier non era peraltro molto femminista. Bisogna pensare che le artiste delle avanguardie non erano delle femministe ante litteram, e per lo più si adattavano a una vita borghese, come ha analizzato con chiarezza la critica e storica dell’arte Abigail Solomon-Godeau.

Ci sono poi state le mostre di artiste donne realizzate da Peggy Guggenheim negli anni Quaranta negli Stati Uniti nella sua galleria Art of This Century. La cosa dunque non è affatto nuova. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati i grandi anni di una prima ondata che metteva in discussione l’invisibilità delle donne con figure critiche centrali come Lucy Lippard e Linda Nochlin, giusto per citare le più note.

Gli anni Duemila, poi, hanno visto una seconda ondata che ha permesso di andare oltre l’essenzialismo, grazie in particolare a Griselda Pollock dagli anni Ottanta e Novanta. Di recente, il Centre Pompidu ha realizzato la mostra “Elles@ centrepompidou”, nel 2009, su iniziativa della mia collega Camille Morineau, fondatrice anche dell’associazione Aware. Secondo me, un nuovo passo in questa direzione è esplorare le ragioni della storia dell’arte in cui le donne sono state rese invisibili.

Perché allineare i nomi delle donne, senza specificare come esse siano co-creatrici della modernità e delle sue conseguenze, senza articolare con precisione il loro contributo alla storia dell’arte, può non bastare per perpetuarne la loro presenza. Mi basti pensare agli sforzi incessanti fatti per mettere in luce il lavoro di Lee Krasner, ma che non sono riusciti a cancellare i luoghi comuni sulla “moglie di Pollock” e sulla sua cosiddetta inferiorità rispetto al marito, che lei difendeva con i denti e con le unghie.

È quanto ha recentemente notato anche Eleanor Nairne, curatrice della bellissima mostra al Barbican di Londra: servono quindi altre storie, monografie sì, ma anche nuove storie. Non si tratta affatto di dimostrare che esiste un’arte femminile, rapportata alla matrice, all’informale o alla quotidianità domestica, perché sarebbe una regressione essenzialista, ma al contrario di situare queste artiste in una storia specifica, laddove non hanno ancora trovato il loro posto.

Più in generale, la questione dell’invisibilità non riguarda solo le donne, ma anche artisti che non rientrano nei canoni, qualunque sia il loro genere. Per questo la Biennale di Venezia 2017 ha presentato insieme Sheila Hicks e Judy Scott, che soffre di sindrome di Down, l’Inuit Kapandinok Pootoogook e la giapponese Shimabuku, ovvero donne artiste, artiste diverse, “native”, estranee e riconosciute, per la qualità del proprio operato al di là di ogni altro criterio di appartenenza.

Ecco perché per “Elles fait l’abstraction”, ho messo in evidenza donne artiste spiritualiste come Georgina Houghton che, dal 1860, era entrata nell’astrazione seguendo un’altra strada. Il mio approccio non è militante, è naturalmente aperto, perché la storia dell’arte consiste in una continua rilettura, che non deve essere solo ideologica, ma basata su una ricerca rigorosa e critica.

Sala della mostra “Elles font l’abstraction”, curata da Christine Macel
Un’immagine di una sala della mostra “Elles font l’abstraction”, curata da Christine Macel, da poco conclusasi al Centre Pompidou a Parigi. Nella foto si possono notare diversi lavori di Sonia Delaunay. Foto @ Audrey Laurans. Courtesy Centre Pompidou, Paris.

Christine Macel, pensa all’astrattismo come una scelta più femminile che maschile?

Niente affatto, non ha assolutamente nulla a che fare con il genere. Per gli artisti spiritisti o teosofi astratti, da Georgiana Houghton a Hilma Af Klint passando per Alice Essington Nelson, si può semplicemente notare che questa saggezza sincretica e occulta accoglieva le donne su un piano di parità con gli uomini e che questa attività era in definitiva più socialmente consentita rispetto agli studi alle Beaux-Arts perché era “a casa”!

Questa idea che la donna abbia poteri “magici” secondo me può essere abbastanza regressiva, perché si riconnette con l’essenzialismo secondo cui la donna è legata all’istintivo, alle profondità ctonie e ancestrali più che al razionale. Tra l’altro, anche Victor Hugo praticava lo spiritualismo.

Inoltre, le artiste delle avanguardie non si identificavano con questo cliché ma piuttosto con i valori modernisti. Hanno potuto quindi credere che abbracciando il linguaggio visivo della modernità avrebbero partecipato a una storia universale in divenire in cui non sarebbero state discriminate, ma questo si è dimostrato essere un mito. Abbiamo dovuto aspettare gli anni Sessanta per vedere iniziare una rivoluzione che è ancora in atto, che ha aperto le porte a una nuova storiografia, grazie a innumerevoli contributi.

Le artiste scelte sono tutte di grandissimo livello qualitativo, c’è pure un gruppetto di italiane: Dadamaino, Carla Accardi, Giannina Censi e Regina Cassolo Bracchi, con quale criterio le ha selezionate? Hanno qualcosa in comune?

A questa lista ho aggiunto anche Bice Lazzari. La mia mostra ha permesso anche l’ingresso nella collezione di un dipinto di Bice Lazzari e la donazione da parte della famiglia Fermani di 5 sculture e 6 disegni di Regina Cassolo, quando già avevamo grandi opere di Carla Accardi e Dadamaino.

Abbiamo esposto Giannina Censi in Danser sa vie nel 2011. La mia scelta è ricaduta su queste figure note o meno note, tra decine di altre che avevo potuto studiare, semplicemente sulla rilevanza dell’opera in relazione alla storia dell’astrazione, la Censi come grande danzatrice del futurismo ispirata ai movimenti di un aeroplano o la Regina come unica donna del Movimento Arte Concreta, accomunate ancora una volta dall’invisibilità.

Sala della mostra “Elles font l’abstraction” curata da Christine Macel
Un’immagine di un’altra sala della mostra “Elles font l’abstraction” curata da Christine Macel, dove si notano alcune opere di Carla Accardi. Foto @ Audrey Laurans. Courtesy Centre Pompidou, Paris.

Anche alla Biennale del 2017 ha rivolto grande attenzione al lavoro femminile, è stata una scelta precisa o seguiva un tema?

In effetti sì, ma è stata una scelta di artisti prima di essere una scelta di donne. E come ha ben capito, il mio approccio anti-essenzialista non li ha confinati a temi che sarebbero stati specificamente femminili.

Come vede Christine Macel il futuro dei musei dopo la pandemia? Pensa che andrebbero rivisitati, e, se sì, in che modo?

Nell’attuale contesto sanitario e geopolitico, i musei dovranno rifocalizzarsi su un pubblico più locale e non solo sul turismo. Questo non potrà che far del bene alla conservazione del patrimonio e alle comunità, tenute più in considerazione.

Credo che il pubblico non vada sottovalutato e che sia maturo il tempo per presentare altre narrazioni legate alla storia dell’arte, discostandosi dalle solite monografie blockbusters, e legando soggetti a temi di tipo sociologico che riguardano ognuno di noi. In questo modo il museo può assolvere alla sua missione di ricerca, ma anche al suo ruolo sociale, soprattutto nei confronti dei più giovani e per tutte le categorie sociali.

Vedo un grande interesse del pubblico verso i musei dopo la pandemia, almeno in Francia, oltre a un grande interesse per ciò che ha senso, che muove, che nutre.

La prossima Biennale di Venezia ha una preponderanza di presenze femminili. Come si spiega questa scelta globale?

Sono lieta che Cecilia Alemani stia proseguendo il lavoro intrapreso da molti dei predecessori che ho citato, in qualche modo rendendo loro omaggio, e sono contenta anche di vedere così tante artiste a me care esposte alla Biennale.

Per gli storici dell’arte tutto questo è risaputo – ogni tanto con una nuova scoperta – visto che negli ultimi dieci anni abbiamo registrato un forte incremento di mostre e tesi sulle donne artiste in tutti i continenti, ma per il grande pubblico farà una grande differenza, sarà una vera e propria svolta.

Negli ultimi anni, in Italia, le cose si sono sviluppate a seguito del grande lavoro di Lea Vergine. Recentemente i musei di Milano e Museo-City hanno dedicato le loro tematiche annuali alle donne artiste, sotto la guida di Maria Grazia Mazzocchi.

Ho notato, nei suoi libri, che tende ad avere una visione ampia dell’arte, includendo in questo concetto varie espressioni, dalla scultura al design alla danza. Pensa ci sia un filo conduttore che unisce tutto?

Sì assolutamente, ma in questo appoggio gli artisti, sono loro che invitano a questo approccio interdisciplinare. In effetti cerco di guardare l’arte dal punto di vista degli artisti. Questa è la lezione che posso trarre dopo anni di frequentazione di opere, dal Louvre agli studi d’artista, dal sentire e comprendere i linguaggi plastici.

E non ultimo, il famoso testo di Giorgio Agamben, che mi aveva colpito molto nel 1996, “L’uomo senza contenuto”, in cui si contrappone il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, l’approccio dell’artista, a quello dell’uomo di buon gusto che esercita il suo giudizio estetico, a volte molto lontano dall’intenzione originaria.

La prossima mostra di Christine Macel?

Ho da poco inaugurato la mostra di Giorgio Griffa, che ci ha onorato con una donazione di 18 opere dai suoi esordi a oggi, con un grande lavoro attorno alla Recherche di Marcel Proust. E la mostra “Elles font l’abstraction”, una nuova versione con 35 artiste e 90 opere della nostra collezione, aprirà presto al Pompidou Westbund di Shanghai, quando la situazione sanitaria lo permetterà.

E poi ci sono i progetti tematici in Francia e all’estero, sia storici a contenuto sociologico, sia d’arte contemporanea. Si tratterà di perseguire la visione neoumanista, polifonica e orizzontale, che guida la mia ricerca.

(traduzione di Silvia Velardi)

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