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Davide Benati

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Ho sempre ammirato la pratica artistica di Davide Benati, capace di una pittura colta e raffinata, che grazie alla tecnica dell’acquerello riesce a esprimere e raffigurare suggestioni e memorie fluide, transitorie, fluttuanti, eteree. Nato a Reggio Emilia, Benati vive e lavora a Milano dove ha insegnato all’Accademia di Brera.

 

Davide Benati
Davide Benati, foto di Beppe Zagaglia – Modena

 

Nel curriculum pubblicato sul suo sito internet troviamo una partecipazione nella sezione “Aperto 82” della Biennale di Venezia dove vi ritornerà nel 1990 con una sala personale. Nel 1986 è invitato alla Quadriennale di Roma; mostre antologiche e pubbliche a lui dedicate si tengono nel 1989 alla Galleria Civica di Modena (con un racconto in catalogo di Antonio Tabucchi) e nel 1992 ai Musei Civici di Reggio Emilia (con un saggio in catalogo di Luciano Caramel).

Significativo è pure l’elenco delle partecipazioni a importanti rassegne di gruppo (“Anni Ottanta” a Bologna e la III Triennale Internazionale al Kunsthalle di Norimberga nel 1985, “Dopo il Concettuale” a Trento, “Itinerari di Arte Contemporanea“ a Lisbona nel 1986, Biennale Internazionale de Il Cairo nel 1995), e delle mostre personali in gallerie private italiane e straniere (Anversa, Stoccolma, Amburgo, Parigi, Zurigo, New York). Ho provato a porre qualche domanda direttamente all’artista al fine di comprenderne meglio e raccontarne la pratica artistica.

 

 

Quando è nata la passione per l’acquerello in Davide Benati? Perché proprio questa tecnica è diventata centrale nella tua pratica artistica?

Quando alla fine degli anni ‘70 feci un viaggio in Nepal scoprii un artigianato di tradizione cinese per la fabbricazione della carta. Tra le tante suggestioni quella carta mi colpì perché sembrava contenere una cultura antica, lontana e affascinante: era trasparente, robusta, con minuscoli filamenti vegetali e mi piacque al punto che la portai con me al ritorno.

Cominciai a provare in studio il suo utilizzo e l’acquarello mi sembrò subito lo strumento migliore. Una simbiosi perfetta, evocativa, trasparenza su trasparenza. Nei tempi successivi a questo inizio misi a punto un consolidamento tecnico (l’incollaggio della carta alla tela) che uso fare ancora oggi.

 

 

Pensando, ripercorrendo i diversi periodi della tua produzione, dalla Biennale di Venezia all’ini- zio degli Anni ’80 ad oggi, cosa è cambiato nella tua arte e cosa è rimasto sempre costante?

Nel corso del tempo a fianco degli strumenti tecnici si sono affiancate istanze “poetiche” come il tentativo di riprendere un dialogo con l’arte orientale. La fascinazione del vuoto, la sostanza effimera, la leggerezza e la semplicità delle forme scelte. La componente vegetale della carta, l’acqua, le stesure omogenee, la sovrapposizione infinita dei colori e le somme delle trasparenze, fecero sì che le forme della natura (non tutte naturalmente, ma solo le più evocative come la Ginkgo biloba) fossero le più adatte all’ideazione di un Alfabeto.

Ogni forma che ho utilizzato nel corso del tempo può avere impatti visivi ed emotivi molto diversi allo sguardo: sembrano riconoscibili ma poi nel loro accumularsi sfuggono, sono instabili e la componente cromatica può condurre in territori di diversa tensione emotiva. Non distinguerei tra astrazione e figura: per come ho condotto e conduco nello spazio le forme, sono continuamente su un crinale sottile, in bilico, sfuggenti.

 

 

Cosa hai trovato nell’arte orientale che manca all’arte occidentale?

Ho trovato nell’arte orientale, soprattutto nelle xilografie dell’Ukyo-e che furono amate dagli impres- sionisti, una modernità che ancora incanta. Il mio approccio a quel mondo è stato frutto di un bisogno di altrove, di un radicalismo che mi veniva dalla frequentazione delle esperienze della Pittura Analitica, dal mio amore giovanile per l’Espressionismo Astratto Americano ma senza quella carica eversiva che caratterizzava quelle esperienze.

La mia fascinazione per i Calligrafi, gli ideogrammi, il gesto quieto della china sulla carta di riso. Ho soprattutto avuto bisogno di un altrove ormai introvabile che solo la pratica della pittura può permetterci di trovare.

Davide Benati, Aire 2016, Milano

 

 

 

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