Nell’allestimento della mostra di James Lee Byars all’HangarBicocca di Milano, a cura di Vicente Todolì, emerge con evidenza “il grande interrogativo” esistenziale che connota la pratica dell’artista.
Byars, infatti, nel processo creativo di realizzazione di ciascun lavoro esposto adotta la modalità della “domanda” e del “dubbio” come strumento di conoscenza, ritenendo che quel “punto interrogativo” possa infondere una nuova vita a qualsiasi dichiarazione, spostandola dall’ambito dell’affermazione del reale a quello dell’arte e della poesia.
In particolare, è nell’opera “The figure of question is in the room” (1986) – un pilastro dorato che simboleggia la figura umana nello spazio ove sulla sommità sono incise le due lettere Q e R, acronimo del titolo – che “la domanda” emerge nella sua dimensione più essenziale.
Byars è artista spirituale che coniuga e fa convivere nel suo linguaggio il pensiero filosofico occidentale e la religiosità orientale, in particolare quella nipponica.
A riprova di ciò, nasce a Detroit nel 1932 e muore al Cairo nel 1997, e trascorre una vita nomade con frequenti periodi di permanenza in Giappone.
Il vocabolario espressivo di Byars spaziava dall’arte alla scienza, dalla moda alla televisione, tant’è che l’artista è stato descritto anche come uno sciamano, un dandy, addirittura un mago.
Anche il suo codice estetico era del tutto personale, abiti d’oro, bianchi, neri, rosa, cappello, guanti e talvolta una benda sugli occhi.
Nella sua prima formazione vi sono gli studi di psicologia e filosofia, e proprio in quegli anni (metà anni Cinquanta) le prime azioni e mostre, tra le quali quella in cui, nella propria casa, l’artista sposta tutti i mobili per mettere in risalto la sua presenza nello spazio mentre è seduto su una sedia.
Seguono, dopo l’università, negli anni Sessanta, i viaggi in Giappone, la fascinazione per i rituali dello shintoismo e per il teatro NO.
Gli oggetti votivi, le composizioni sceniche minimali e le maschere, conosciuti attraverso il contatto con questa cultura, diventeranno parte della sua pratica.
L’arte di Byars è anche performativa e relazionale, tant’è che negli anni Sessanta realizza abiti collettivi indossabili da più persone contemporaneamente e nel 1967 fa indossare un’unica, gigantesca sciarpa di seta rossa a una serie di persone che camminano per New York con l’accompagnamento della musica di Bach.
La processione è capitanata dalla studiosa femminista Shere Hite.
Negli ultimi anni del suo lavoro, il suo linguaggio si re-oggettivizza e torna dalle azioni e performance iniziali al recupero degli oggetti e della loro capacità di sollevare domande filosofiche.
Nella mostra all’HangarBicocca il percorso che unisce le diverse opere permette di cogliere questa indagine che spazia fra filosofia, misticismo, spiritualità e corporeità.
Due opere iconiche aprono e chiudono questo percorso: “The golden tower” (1990) e “Red angel of Marseille” (1993).
La prima è una colonna di circa ventuno metri ed è interamente ricoperta di foglia d’oro, è l’opera più imponente mai realizzata dall’artista. L’idea iniziale era quella di creare un “monumento all’umanità”.
Il lavoro verrà realizzato nel 2017, dopo la morte di Byars, e verrà installato in Campo San Vio a Venezia, una città a cui l’artista era particolarmente legato.
È un’architettura religiosa, una torre di Babele, un minareto con l’ambizione di avvicinare l’uomo al cielo, verso il divino. La foglia d’oro testimonia, invece, la ricerca spirituale e filosofica dell’artista.
Vi sono torri monumentali in mostra, ma anche piccoli fori per parlare e “The hole for speech” (1974-81) “un ago per il pensiero”, uno strumento di comunicazione concepito dall’artista per i visitatori, da utilizzare per “isolarsi dallo spazio” vivendo “brevi istanti di introspezione” dietro una “maschera di vetro”.
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