La prima cosa che mi colpisce dalla visita alla mostra di Bill Viola, che si tiene a Palazzo Reale di Milano fino al 25 giugno, è l’assenza di coda all’entrata. È una mattina infrasettimanale, dal sapore tardo primaverile, Piazza Duomo è affollatissima di turisti e residenti; tuttavia, riesco ad accedere alla mostra senza nemmeno un minuto di attesa e la visito in quasi totale solitudine.

È assolutamente plausibile che sia una mera coincidenza poiché Bill Viola è considerato uno degli artisti più accessibili di quell’ambito artistico, ma questo fatto mi stimola a riflettere sul recepimento presso il pubblico della videoarte. La nascita del fenomeno non è recente, perché è trascorso oltre mezzo secolo dalla mostra “The machine as seen at the end of the mechanical age” curata da Pontus Hulten al MOMA di New York nel 1968.
E sono passati esattamente sessant’anni dal 1963 quando Nam June Paik allestì la sua “Exposition of Music-Electronic Television” in Germania dell’Ovest, considerata la prima vera esposizione di videoarte della storia. Chiaramente sessant’anni non sono nulla in un contesto millenario in cui le arti visive erano dominate dalla pittura e dalla scultura. Anche la fotografia, che è apparsa sulla scena nella prima metà dell’Ottocento, ha dovuto faticare a farsi riconoscere come arte.
“Ho iniziato a rendermi conto che avevo bisogno di sapere non solo come funzionava la fotocamera, ma anche come funzionavano l’occhio e l’orecchio, come il cervello elaborava le informazioni”.
Bill Viola
Da dove nasce la diffidenza di una parte del pubblico, e ancor di più di quello italiano, per la Media Art o videoarte che dir si voglia? Probabilmente dal massiccio uso della tecnologia che, derivando da un ambito industriale, genera dei dubbi sulla originalità del processo creativo e, in secondo luogo, dalla difficoltà di comprendere la differenza tra il significante e il significato, tra il mezzo tecnologico e il contenuto.
Il mezzo è funzionale al contenuto o il mezzo è il contenuto? Questi interrogativi avevano interessato ai suoi albori anche la fotografia la cui identità oscillava fra la cosiddetta “Straight Photography”, la fotografia diretta che implicava una ripresa del soggetto non condizionata dai sentimenti del fotografo, e il pittorialismo, praticato da coloro che prediligevano una ricerca artistica pura e che vedevano nelle potenzialità del mezzo lo strumento per realizzare la visione artistica del fotografo.

La tecnica, si badi bene, ha avuto un ruolo preponderante anche nell’evoluzione della pittura. Si pensi al passaggio dalla pittura a tempera praticata sin dall’antico Egitto alla pittura a olio introdotta nel Rinascimento dalla cultura fiamminga.
La rivoluzione della pittura “en plein air”, consolidatasi con gli Impressionisti, non si sarebbe imposta senza l’invenzione del tubetto a olio industriale che permetteva di portarsi comodamente i colori appresso senza dover ricorrere alle laboriose preparazioni in studio. Infine il passaggio dai colori a olio agli acrilici, che accelerarono il processo di asciugatura, fece la fortuna di Jackson Pollock e della pittura gestuale.
Eppure questi cambiamenti non sono stati percepiti per la loro importanza da parte del pubblico il cui principale interesse è rimasto focalizzato sul soggetto raffigurato nell’opera. Nessuno direbbe di visitare “una mostra di pitture a olio” oppure “una mostra di sculture in corte” identificando la mostra con la tecnica utilizzata, ma più facilmente diciamo “una mostra di videoarte” o “una mostra di fotografia”.

Le opere di videoarte realizzate all’inizio degli anni Settanta si dividono in due principali tendenze : una prima derivante dalle esperienze di Nam June Paik che insiste sulla natura elettronica del medium stesso e che, attraverso la manipolazione dei sistemi e dei circuiti, crea immagini astratte senza l’uso della telecamera; e una seconda tendenza, che si riscontra nel lavoro di artisti come Bruce Nauman, che si concentra sull’uso della telecamera che registra il corpo mentre compie delle azioni. Bill Viola nasce artisticamente con la videoarte di cui apprezza il connubio fra il suono (lui era batterista) e l’immagine.
Nella biografia di Bill Viola riscontriamo progressivamente il passaggio da un più marcato interesse per il mezzo tecnologico a una maggiore attenzione per la fruizione dello spettatore, e quindi da un maggiore ricorso alla tecnologia a una valorizzazione della percezione fisica dell’uomo.
“Fino a quel momento pensavo che l’aspetto principale nel video fosse la tecnologia – afferma Bill Viola – e poi mi resi che era sbagliato, o solo metà del problema. L’altra metà era il sistema di percezione umana. Ho iniziato a rendermi conto che avevo bisogno di sapere non solo come funzionava la fotocamera, ma anche come funzionavano l’occhio e l’orecchio, come il cervello elaborava le informazioni. Questa indagine mi ha portato in un’area completamente nuova nel mio lavoro successivo. Ho iniziato lentamente a considerare il video come un sistema vivente totale”.

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