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Alessandro Riva

Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Così amava dire il Grande Timoniere, il Presidente Mao, quello che traghettò la Cina comunista prima nella modernità industriale, poi nel tempo convulso della contemporaneità. E anche dal nostro pulpito critico-artistico, oggi, volendo commentare la confusissima situazione dell’arte italiana, possiamo, senza timore di sbagliarci, affidarci al verbo maoista.

Spariti gli “ismi” da ogni orizzonte, morta qualsiasi parvenza di avanguardia, ultimo residuo novecentesco, finite le guerre da combattere per sostenere le magnifiche sorti e progressive di un’arte che, imitando il ritmo convulso delle rivoluzioni politiche, si autoproclamava “elite” in grado di indicare ai poveri mortali la via da seguire: l’azzeramento progressivo di ogni linguaggio, la morte delle tecniche tradizionali, la fine dei generi.

Ma no, l’arte, come la letteratura, riparte ogni volta da se stessa, riscopre generi dimenticati, tecniche finite in disuso, apre porte che parevano chiuse, e ne spalanca di nuove che non credevamo neppure esistessero. Ecco allora che quello che credevamo fosse l’immortale “sistema dell’arte” all’improvviso si sfarina, si estingue da sé, sotto i colpi non di una nuova rivoluzione politica, ma tecnologica, non passeggera, ma strutturale.

La disintermediazione tra artista e fruitore portata da internet e dall’accelerazione tecnologica postpandemica lascerà molti cadaveri al suolo: galleristi, curatori, una pletora di funzionari di un sistema che oggi finge di reggersi ancora in piedi, ma che di fatto non esiste più. Esiste l’arte: esistono artisti che utilizzano di volta in volta linguaggi nuovissimi o vecchissimi, ma con nuovi approcci, nuove istanze, nuovi modelli di riferimento.

L’arte, oggi, di fatto smette di essere un circolino chiuso, per addetti ai lavori, e torna nelle strade (con l’arte urbana), nelle case (con internet e i social), gli artisti smettono di essere ostaggio di un pugno di curatori e di galleristi, ma imparano a guardare coi propri occhi, a pensare con la propria testa, a girare liberamente nello spazio infinito della rete per trovare propri modelli, proprie ispirazioni, proprie suggestioni.

Il risultato è un inevitabile caos: che, pragmaticamente, noi possiamo cercare di ordinare, di analizzare, di monitora- re. Nulla di più. La pittura è viva, pur non dovendo registrare improbabili “ritorni all’ordine”; la scultura rinasce, in barba al triste dominio installativo che aveva caratterizzato l’ultimo secolo; la nuova arte digitale dà buoni e speranzosi frutti; l’urban art è divenuta una pratica corrente, consueta; nuovi materiali entrano nella pratica artistica, nuove idee, nuovi frutti sbocciano inaspettati.

Il vecchio sistema è morente, o forse già morto (abbiamo non a caso aperto questa nuova stagione di “Arte In” con un’inchiesta intitolata “Requiem per il sistema dell’arte”). Il nuovo stenta ancora a delinearsi, ma in questa frattura, in questo passaggio, come sempre avviene, forse stanno maturando i frutti della nuova arte. Anche quella italiana.

arte italiana
Pino Pascali, Ponte levatoio, 1968, lana d’acciaio, armatura lignea e fili metallici, cm 221x118x10. L’opera è stata acquistata dal Moma di New York nel 2008 per 2,3 milioni di euro.

 

Secondo Novecento

L’arte italiana punto di riferimento nelle aste internazionali

di Alberto Fiz

“Lo chiameresti surreale? O astratto? Non saprei… Quello che so è che si tratta di una teoria dell’arte completamente nuova, un approccio nuovo che fa apparire i quadri come fa la vita. Scommetto che questa mia idea farà molto rumore, sissignore, proprio molto rumore!…”. Così scriveva Domenico Gnoli in un appunto rimasto a lungo nel cassetto. E non c’è dubbio che il suo linguaggio in grado di sintetizzare la Metafisica italiana e la Pop Art americana, abbia suscitato molto rumore scardinando ogni regola precostituita. La sua pittura impone la trama degli oggetti spettacolarizzandone la presenza cangiante, quasi fossero ultracorpi che s’impongono al di fuori di ogni giustificazione.

Ed è forse per questa ragione che Gnoli rimane un outsider per nulla omologabile nella società dei like e dei link dove le immagini debordanti e banali hanno preso il sopravvento. Del resto, è proprio nella categoria degli artisti individualisti, non assimilabili alle correnti artistiche della seconda metà del Novecento, che lo ha collocato la Fondazione Prada presentando, sino al 27 febbraio, la sua grande retrospettiva con oltre cento opere progettata da Germano Celant.

Gnoli è un irriducibile, conteso dai principali collezionisti del mondo che fanno a gara per acquistare a cifre da capogiro le sue opere più iconiche dove appaiono ingigantiti le trame di un tessuto, il nodo di una cravatta, la punta di una scarpa o la scriminatura dei capelli. E non c’è dubbio che la mostra milanese contribuirà in maniera determinante a far lievitare ulteriormente le quotazioni che troveranno il loro definitivo coronamento quando giungerà anche il lasciapassare da parte dei musei americani che sino ad ora non hanno ancora celebrato con una retrospettiva l’artista italo-americano morto nel 1970 a soli trentasette anni in grado di stravolgere la lettura corrente della Pop Art.

Il record di Gnoli risale al 13 febbraio 2014 quando Black Hair, una capigliatura femminile vista di schiena, è stata aggiudicata da Christie’s a Londra per 7 milioni di sterline (8,2 milioni di euro) superando di ben quattro volte le stime. Di recente, il 15 ottobre 2021 Sous la Chassure con il particolare di una scarpa che si alza dal pavimento, ha cambiato proprietario da Christie’s a Londra per 2,1 milioni di sterline (2,5 milioni di euro).

 

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Piero Manzoni, Achrome, 1958-59, caolino su tela grinzata, 110×150 cm. L’opera è stata aggiuduicata da Sotheby’s Londra nel 2014 per 14,8 milioni di euro.

 

Ebbene, un’opera simile, all’inizio degli anni Novanta, si acquistava intorno ai 100 mila euro. E dieci anni dopo, senza grandi patemi, la si poteva portare a casa con 300 mila euro. Il balzo è avvenuto nel 2011 quando Fur, con in primo piano il particolare di una pelliccia, è balzato nell’asta di Chistie’s a Londra da 280 a 880 mila sterline (poco più di un milione di euro).

In Italia, soprattutto negli anni Ottanta, acquistare Gnoli al di sotto dei 100 milioni di vecchie lire non era certo impossibile (Francesco Clemente costava cinque volte di più) e lo si trovava al di fuori dei canali mainstream.

Un’outsider che nel 1986 veniva proposto dalla galleria Trentadue di Milano (il suo cavallo di battaglia era Aligi Sassu) in una collettiva dal titolo “Vertigine Metafisica” insieme ad artisti quali Fabrizio Clerici, Carlo Guarienti, Armodio, mentre l’anno dopo (nel 1987 di Gnoli si erano tenute due importanti personali alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e alla Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence) compariva in un’altra collettiva presentata da Vittorio Sgarbi alla galleria Forni di Bologna dal titolo “Arte Segreta”, dove al gruppo già presente a Milano si aggiungevano Balthus, ma anche Leonardo Cremonini, Gustavo Foppiani e Piero Guccione.

Insomma, insieme a tanti comprimari di seconda fila che oggi faticano al di sotto dei 10 mila euro, l’unico destinato ad entrare permanentemente nella storia era Gnoli, anche se allora ben pochi l’avevano compreso.

La vicenda di uno dei maggiori protagonisti della figurazione contemporanea non è affatto un’eccezione nell’ambito di un mercato dove gli artisti italiani hanno avuto un riconoscimento commerciale piuttosto tradivo colmando, spesso solo in parte, il gap che li separa dagli autori europei e americani.

Per molto tempo il Bel Paese faceva notizia all’estero solo per i maestri storici entrati nelle collezioni dei musei statunitensi, in particolare Amedeo Modigliani, Giorgio de Chirico, ma solo in relazione alle opere metafisiche degli anni Dieci e il Futurismo storico.

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Domenico Gnoli, Black Hair, 1969, acrilico e sabbia su tela, cm 170 x 150. L’opera è stata aggiudicata da Christie’s a Londra per 7 milioni di sterline (8,2 milioni di euro) nel febbraio 2014.

 

Per il resto i giochi si facevano in casa e persino Giorgio Morandi era un fenomeno prevalentemente nazionale. Il sistema pubblico aveva scarsa capacità attrattiva e spesso (come ora) non era in grado di dialogare alla pari con le istituzioni straniere.

Nello stesso tempo, sino agli anni Ottanta, i musei d’arte contemporanea non esistevano (il Castello di Rivoli ha inaugurato nel 1984). In questa situazione di arretratezza il mercato ha svolto un ruolo fondamentale aprendo le frontiere agli artisti di casa che nel corso di due decadi hanno scalato le classifiche ottenendo ampi consensi.

La riscoperta del dopoguerra, insomma, deve molto alle italian sale, le vendite londinesi dedicate all’arte italiana che si sono svolte dalla fine degli anni novanta sino al 2016 per poi trasformarsi in appuntamenti più ibridi. La prima è stata organizzata da Sotheby’s nel 1999 grazie all’impegno di Claudia Dwek (attuale responsabile del Dipartimento dell’arte contemporanea europea) e di Elena Geuna (attuale cosulente di François Pinault).

La vendita coincideva con il Festival Italiano di Cultura caratterizzato da una serie di avvenimenti che celebravano l’arte italiana come la prima retrospettiva di Lucio Fontana alla Hayward Gallery di Londra in occasione del centenario della nascita e le due rassegne dedicate dalla Estorick collection a Giorgio Morandi e Gino Severini.

In un contesto che favoriva il tricolore, l’asta aveva raggiunto un discreto risultato con un fatturato di 5,4 milioni di sterline (6,3 milioni di euro) e i record per Alighiero Boetti e Jannis Kounellis. Il primo aveva totalizzato 144 mila sterline (170 mila euro) con Mappa del Mondo (attualmente vale intorno ai 2,5 milioni di sterline), mentre Kounellis con Alfabeto e Segno si era imposto per 441 mila sterline pari a 520 mila euro (oggi costa tre volte di più).

L’aspetto fondamentale era stato lo sdoganamento dell’arte italiana che riusciva ad attrarre collezionisti provenienti da ogni parte del mondo, in particolare Europa e Stati Uniti a cui si aggiungerà negli anni successivi l’Oriente.

Il punto di partenza di queste vendite accompagnate da pubblicazioni approfondite (dopo la pandemia i cataloghi cartacei sono stati eliminati) è stato quello di rileggere il dopoguerra secondo una prospettiva sconosciuta agli stranieri.

“Ci siamo ispirati a ‘Italian Metamorphosis’, la grande mostra curata da Germano Celant per il Guggenheim di New York nel 1995 che affrontava i diversi ambiti della ricerca italiana dal 1943 al 1968”, afferma Mariolina Bassetti, responsabile europea di Christie’s, la major che ha realizzato la sua prima italian sale nel 2000. In quell’occasione a contendersi il primato sono stati una Natura morta di Morandi aggiudicata per 432 mila sterline (510 mila euro), 55 mila sterline in meno rispetto a La fine di Dio di Fontana che chiudeva la gara a 487 mila sterline (570 mila euro). Tra i top lot anche Gnoli con Camicia a righe sfilata per 202 mila sterline (240 mila euro).

 

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Alberto Burri, Rosso Plastica M1, 1961, plastica, acrilico e combustione su tela, cm 117×132.5: venduta da Christie’s Londra nel 2015 per 4 milioni di euro.

 

Nonostante i drammatici atti di terrorismo e le crisi economiche, dal crollo delle Twin Towers al fallimento di Lehman Borthers, le italian sale hanno progressivamente incrementato i fatturati coinvolgendo musei e istituzioni pubbliche. Proprio nel 2008 il MoMA di New York ha approfittato del flop di Pino Pascali per acquistare, dopo asta da Christie’s, intorno ai 2 milioni di sterline (2,3 milioni di euro) una delle sue opere più emblematiche, Ponte levatoio del 1968.

Qualche anno dopo giungerà anche la consacrazione sotto il martello del banditore e il 6 ottobre 2016 da Christie’s a Londra Coda di delfino, uno dei riferimenti di Maurizio Cattelan, ha cambiato proprietario per 2,6 milioni di sterline (3 milioni di euro). Determinanti per stabilire i destini del dopoguerra, le italian sale hanno raggiunto il loro massimo livello di visibilità tra il 2014 e il 2015.

L’asta organizzata da Sotheby’s il 17 ottobre 2014 ha raggiunto infatti, per la prima volta, un fatturato di 41,4 milioni di sterline (48,6 milioni di euro) portando sul gradino più alto del podio uno storico Achrome di Piero Manzoni (110 x 150 centimetri) che, raddoppiando le stime, è stato aggiudicato per la cifra record ancora insuperata di 12,6 milioni di sterline (14,8 milioni di euro).

L’anno dopo, il 16 ottobre, l’exploit è di Christie’s che con un fatturato di 43,1 milioni di sterline (50,6 milioni di euro) stabilisce il primato assoluto per un’italian sale: sono in molti a fare strike e insieme a Fontana, Morandi, Enrico Castellani, Luciano Fabro e Michelangelo Pistoletto, si assiste all’ascesa di Alberto Burri di cui pochi giorni prima era stata inaugurata la sua prima grande retrospettiva in America “The Trauma of Painting” al Guggenheim di New York.

Sebbene i riflessi più evidenti del mercato arriveranno l’anno dopo, in quell’asta Burri supera i 3 milioni di sterline con Rosso Plastica M1, una combustione del 1961 aggiudicata per 3,4 milioni di sterline (4 milioni di euro). Ottima anche la performance di Sotheby’s che il 15 ottobre ottiene 15,9 milioni di sterline (18,6 milioni di euro) con La Fine di Dio di Lucio Fontana.

La situazione tuttavia stava cambiando e le nubi sull’economia accompagnate dal sì degli inglesi al referendum sulla Brexit presagivano un futuro incerto e, non a caso, le italian sale del 2016 avevano dimezzato i fatturati.

Da allora la formula è stata modificate e l’arte italiana che conta viene proposta a Londra e New York insieme ai grandi nomi internazionali dello star system, da Cy Twombly a Gerhard Richter. In autunno la City, complice Frieze, rimane sempre un forte polo d’attrazione per dealer e collezionisti del Bel Paese anche se alle italian sale si preferiscono formule più generiche.

Comunque sia, in diciassette anni le monografiche made in Italy hanno avuto il merito d’internazionalizzare il mercato determinando il boom di Fontana Manzoni e Castellani con un’ampia promozione per i molti artisti che hanno partecipato all’esperienza della pittura oggetto, da Agostino Bonalumi a Dadamaino; da Turi Simeti a Paolo Scheggi. Non sono mancate le operazioni speculative a breve raggio e proprio Scheggi è stato protagonista di una girandola continua di rialzi (il suo record del 2015 è di 1,6 milioni di euro) per poi perdere quota con riduzioni talvolta superiori al 60%.

 

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La fine di Dio di Lucio Fontana, 1963, cm 177×123, aggiudicato nel 2015 da Sotheby’s per 18,6 milioni euro.

 

Sull’ottovolante delle italian sale, insieme ai soliti noti, sono saliti in molti per poi scendere dopo qualche giro di giostra, com’è accaduto a Carol Rama o a Vincenzo Agnetti. Rimanendo al di sotto delle 100 mila sterline (120 mila euro) qualche soddisfazione se la sono tolta anche Marina Apollonio e Franco Grignani. Se l’Arte Povera, in particolare con Pistoletto e Boetti, ha trovato nelle italian sale un ottimo veicolo per incrementare le quotazioni, la Transavanguardia, già fuori moda alla fine degli anni Novanta, non è mai salita su quel convoglio.

Al di là dei trend e dei singoli episodi, il mercato italiano del dopoguerra in vent’anni ha cambiato pelle e oggi rappresenta un punto di riferimento a livello mondiale. Le italian sale hanno terminato la loro corsa ma gli effetti sono oramai consolidati e il 15 novembre 2021 da Sotheby’s a New York Fontana (è sempre lui a trascinare il mattatore) ha partecipato al trionfo della collezione Macklowe con i 12,8 milioni di dollari (11,3 milioni di euro) messi a segno da un Concetto spaziale con dodici tagli su fondo bianco. E il 24 novembre anche Milano ha battuto un colpo consacrando Mario Schifano che da Sotheby’s a Milano ha raggiunto un milione di euro per Cartello, un di- pinto monocromo del 1960.

I giochi sono fatti. Almeno sino alla prossima puntata.

 

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Michelangelo Pistoletto, Lei e lui abbracciati (Michelangelo e Maria), 1968, velina dipinta su acciaio inox lucidato a specchio, cm 230.2 x 120. L’opera è stata venduta da Christie’s nel 2015 per 1,7 milioni di sterline.

 

Primo Novecento

Arte italiana, un mercato in costante ascesa

di Roberto Capitanio

A cavallo fra gli ultimi anni della cosiddetta Arte Moderna (1930-1950) e gli inizi del successivo periodo storico (1950-1960) ci sono stati diversi artisti italiani presi a modello dai loro contemporanei e che, successivamente, sono diventati i maestri da indicare nei libri di testo scolastici e nelle enciclopedie dedicate all’arte. Tra questi certamente possiamo annoverare Giorgio Morandi, Piero Dorazio, Giuseppe Capogrossi, Leoncillo, Giorgio De Chirico e Giulio D’Anna, artisti contraddistinti ognuno da un proprio e singolare percorso culturale e segnico che tutt’ora hanno un grande riscontro da parte del mercato sia in termini artistici che in valore finanziario, riscontri che non pare possano degradare nei prossimi anni.

Il mercato, infatti, sia che si tratti delle Nature morte morandiane che dei Paesaggi futuristi di D’Anna oppure delle sculture di Leoncillo o delle “forchette” di Capogrossi as- sorbe tutte le opere di questi artisti a prezzi sempre più alti, generando delle buone plusvalenze per i venditori ma anche delle ottime occasioni d’acquisto per i collezionisti.

 

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Alighiero Boetti, Mappa del mondo, ricamo su tela, 1978, cm 179×220. L’opera è stata aggiudicata da Sotheby’s nel 2021 per 3 milioni di sterline.

 

Per ribadire questo concetto ipotizziamo come esempio l’acquisizione nelle aste internazionali di un’opera di dimensioni 50×50 cm realizzata da questi artisti: nel 1984 una natura morta di Morandi sarebbe costata mediamente 115mila euro mentre oggi per la stessa sono necessari più di 2 milioni di euro, nel 1988 per una Piazza d’Italia di De Chirico ci volevano circa 105 mila euro mentre oggi ce ne vogliono almeno 450 mila, nel 2002 per acquistare una “superficie” di Capogrossi bisognava spendere circa 50 mila euro mentre nel 2020-2021 è necessario prevedere almeno 80 mila euro, nel 1987 per poter prendere un “reticolo” di Dorazio sarebbero bastati 10 mila euro mentre oggi ne occorrono almeno 100 mila e nel 1988 per mettere in collezione una scultura di Leoncillo ci volevano all’incirca 8 mila euro, oggi con meno di 70 mila euro si prende un bel niente.

Entriamo nel dettaglio e iniziamo questa analisi dal più anziano del lotto, ovvero da Giorgio De Chirico, le cui opere note come Piazze d’Italia ottengono risultati (in termini di importi di aggiudicazione) in continua e costante salita sin dal 1995. Il valore determinato nel 2021, addirittura, risulta essere il migliore dal 1991 ovvero esso si qualifica come il miglior risultato degli ultimi trent’anni, fermo restando comunque che la linea di tendenza dei dati finanziari è in crescita assicurando quanti vogliano (e possono) investire nelle opere dechirichiane. Il top record delle Piazze d’Italia è costituito da Il sogno del poeta, un olio su tela del 1913 (69,50×86,30 cm) venduto a 2 milioni e 200 mila euro da Sotheby’s a New York nel 1991.

Quasi coetaneo di De Chirico è Giorgio Morandi (più giovane di due anni rispetto all’altro Giorgio), artista che ugualmente ha proiettato le sue ricerche verso il figurativo e in qualche modo verso la Metafisica, specialmente con le sue ambite nature morte, ma le cui quotazioni medie sono molto più alte rispetto a quelle del maestro italo-greco (basti considerare che le opere del maestro bolognese che hanno superato il milione di euro sono 46 mentre le piazze d’Italia sono soltanto due).

 

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Giorgio Morandi, Natura morta, 1940, olio su tela, cm 37,5×50, aggiudicato da Christie’s New York nel 2018 a 3 milioni 644 mila euro.

 

Il top record relativo alle Nature morte è detenuto da un’opera ovale del 1940 (37,50×50 cm) venduta a 3 milioni 650 mila euro da Christie’s nel 2018 a New York, opera che detiene il record anche a livello di coefficiente più alto ottenuto nelle aste internazionali. A conferma dell’immutato ma anche maggior interesse del mercato nei confronti delle opere di Morandi basti considerare che fra le prime 6 aggiudicazioni più alte della storia una è stata ottenuta nel 2021, due nel 2018 e una nel 2019.

Proseguiamo la nostra analisi con Giuseppe Capogrossi, artista inizialmente anch’egli figurativo ma che poi ha spostato le sue attenzioni verso una segnica astratta molto caratteristica e inconfondibile (nota come “forchette” ma titolata “superfici”) il cui consenso da parte della critica lo ha elevato al rango di grande maestro del Novecento. Le sue opere, rispetto a quelle di De Chirico e Morandi, a livello di prezzo sono indubbiamente più abbordabili ma parliamo comunque che per poterne acquistare un esemplare sono necessari importi a 5/6 cifre.

Il top record delle “forchette” resiste dal 2011 con Superficie 470, un olio su tela del 1962 da 146 cm di altezza e 97 cm di larghezza venduto a 344 mila euro da Farsetti di Prato, ma subito dopo notiamo che in seconda posizione compare Superficie 196 venduta nel 2020 a 327 mila euro a conferma della grande attenzione dei collezionisti nei confronti della produzione di Capogrossi.

Per precisione diciamo che questo secondo top lot del maestro romano (olio su tela, 145,50×114 cm, realizzato nel 1957) è stato esitato a Milano da Sotheby’s. A completamento della analisi del mercato di Giuseppe Capogrossi mettiamo in risalto che in merito alle “superfici” la linea di tendenza relativa ai coefficienti medi annui ricavati dai risultati delle aste internazionali è in salita dal 2002.

Con Giulio D’Anna (probabilmente il meno noto del lotto ma non per questo egli deve essere considerato un artista di scarsa importanza storica) passiamo al genere “figurativo futurista”, ovvero a quei particolari dipinti aventi come soggetto prevalentemente delle vedute aeree, scenari da lui certamente preferiti.

 

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Piero Dorazio, Cool Star, 1962, 81,6×101 cm, aggiudicata da Sotheby’s New York per 380 mila euro.

 

Proprio per il fatto che D’Anna non è un nome “alla moda” è possibile acquistare le sue opere a prezzi abbordabili senza per questo rischiare gli investimenti fatti. Dal 2003, infatti, i coefficienti medi annui relativi alle sue aggiudicazioni sono in lenta ma costante ascesa, la cui lettura complessiva fornisce una buona garanzia per i collezionisti.

Le sue opere, peraltro, sono maggiormente vendute all’estero (fra le prime 20 opere della classifica delle sue vendite ben 11 sono state aggiudicate a Londra e 5 a Vienna). Per quanto riguarda il top record delle “vedute” di Giulio D’Anna esso è costituito da Paesaggio siciliano e aerei del 1928, un dipinto a olio su tela (77,80×108 cm) venduto a Londra da Christie’s nel 2017 al prezzo di 115 mila euro.

Dopo tanta pittura passiamo alle sculture in ceramica (o terracotta) realizzate da Leoncillo, che nulla di meno hanno rispetto alla qualità delle similari opere realizzate da Lucio Fontana se non il prezzo. Proprio per questo motivo le sue sculture sono molto ambite, in quanto possono essere acquisite a prezzi sempre più in crescita ma ancora accessibili (dal 1988 a oggi essi sono aumentati di circa 10 volte). Il top record è costituito da Grande mutilazione del 1962, una grande scultura in grès e smalti con base in legno alta 224 cm e lati da 40 cm, venduta a 969 mila euro da Sotheby’s a Milano.

 

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Leoncillo, Grande mutilazione, 1962, grès e smalti, venduta a 969 mila euro da Sotheby’s Milano.

 

Evidentemente un prezzo così importante è dato anche dalle notevoli dimensioni dell’opera, ma è altrettanto innegabile che per acquistare sculture di dimensioni più contenute occorre mettere a budget importi a 5-6 cifre, senza per questo correre rischi a livello di investimento.

Chiudiamo questo report con l’artista più giovane tra quelli indicati in apertura, ovvero Piero Dorazio, del quale certamente vale il detto “ultimo ma non ultimo” in quanto ancora prima dei vari De Chirico, Morandi, Capogrossi, D’Anna e Leoncillo ha avuto (e ha ancora) successo sul mercato internazionale.

Del maestro romano, in particolare, prendiamo in considerazione le opere realizzate a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta note come “reticoli” che sono quelle che maggiormente garantiscono buone possibilità di crescita e ottime garanzie di mantenimento del loro valore (dal 1987 a oggi il valore relativo al coefficiente medio annuo è aumentato di 9 volte). Così come per gli altri artisti già trattati anche per Dorazio mettiamo in evidenza il suo top record che è Cool star del 1962, un olio su tela di 81,60×101 cm venduto nel 2019 a New York da Sotheby’s al prezzo di 474 mila euro.

A conferma dell’interesse del mercato nei confronti dei “reticoli” di Dorazio vi è da constatare che nelle prime 7 posizioni della classifica dei suoi “top lot” ben 6 opere sono state aggiudicate fra il 2018 e il 2019 (4 nel 2019, 2 nel 2018).

 

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Giuseppe Capogrossi, Superficie 470, 1962, olio su tela, cm. 146×97, venduto da Farsetti Prato per 344 mila euro.

 

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Relegata per decenni a fenomeno guardato con interesse ma sostanzialmente laterale, buono per spiriti liberi e vagamente eccentrici all’interno…
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