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a cura di Michela Ongaretti, Alessandro Riva, Paolo Sciortino

TRANSIZIONE ECOLOGICA, IL MONDO DELL’ARTE ALLE PRESE CON LE SFIDE DEL FUTURO

di Paolo Sciortino

L’arte alla svolta green. Nessuno sfugge, il richiamo è giuridico e planetario: la “transizione ecologica”, detto tra virgolette per rispetto delle accademie della lingua, che non hanno ancora codificato l’espressione, è tuttavia nei codici di tutte le nazioni. È un dovere morale, prima che costituzionale, per tutti gli ordinamenti politici del mondo. Specialmente, et pour cause, direbbe Emmanuel Macron, après le déluge, ovvero dopo la pandemia che ha inondato le terre emerse della civiltà. I domini umani del mondo.
Il mondo dell’arte non è un mondo a parte, anche se molti dei suoi abitanti vorrebbero sentircisi, oppure ambiscono a non volerne stare fuori. Il che equivale, praticamente, a un unico sentimento: il sentimento della diversità, perseguita o sofferta, non importa. A dimostrazione della verità di questa ambiguità di senso, le opinioni, le dimostrazioni, le prassi operative e ideologiche, i progetti e i proclami, i sensi e i dissensi dei cittadini dell’arte, che
in questa inchiesta convolano appassionatamente in una grande tavola rotonda di posizioni avverse.
C’è chi inneggia, finalmente con ottenuta fierezza, il grande passaggio dalle derive dell’inquinamento e del consumismo ai lidi del nitore purificato, sterilizzato, riciclato e limpido (sono i più, naturalmente), chi sostiene che le ragioni dell’arte debbano continuare a essere avulse e autonome dalle logiche del mainstream, chi (sparuta minoranza) teme l’insorgenza di nuove e più subdole ipocrisie, nell’avvento di una “pulizia del mondo”, che evoca rimembranze tenebrose.

 

Banksy, I remember when all this was trees.

Resta il fatto, sicuro e garantito, che l’intero esercito dell’arte nostrana è schierato con armi varie e strategie diverse, ma perlopiù convergenti alla volta di una koinè di intenti, per dir così, palingenetici.
Una gran parata che fronteggia il reset della comunicazione artistica. Critici, galleristi, mercanti, artisti storicizzati e giovani generazioni di writer si scambiano argomenti su quella che si auspica sarà, a pochi passi dall’uscita dal tunnel del Covid, una nuova stagione di realistiche utopie.

 

Beuys, dalla parte della Natura

Nel centenario della nascita dell’artista-sciamano parla Lucrezia De Domizio Durini

di Paolo Sciortino

Lucrezia De Domizio Durini era rientrata da Parigi in Italia, alla fine del 2019, a Bolognano, negli Abruzzi, sede elettiva del lungo sodalizio artistico condiviso con il marito insieme a Joseph Beuys. Era rientrata apposta, tiene a sottolineare, per “chiudere il cerchio dei miei tanti anni di lavoro nell’arte, oltre l’arte, e in particolare portare alla luce la mia collaborazione con Beuys durante i suoi ultimi 15 anni di vita”. Ovvero: “la famosa operazione Difesa della Natura che il Maestro ha diffuso nel mondo, anche attraverso l’obiettivo magico di Buby Durini, mio marito”. Le trattative con le istituzioni locali per la realizzazione di un museo internazionale chiamato Paradise Museum of Joseph Beuys, dotato delle opere della collezione De Domizio Durini, da collocare in una sede pubblica non sono però andate a buon fine. Di questo e d’altro, abbiamo parlato con Lucrezia De Domizio Durini.
Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Joseph Beuys. In Italia, in particolare a Bolognano, dove l’artista aveva trascorso importanti periodi della sua vita e della sua produzione, ospite suo e di suo marito, sono state intraprese iniziative commemorative. È soddisfatta dei risultati di partecipazione agli eventi? In Germania, per esempio, le celebrazioni per Beuys sono state particolarmente vaste e diffuse. Ritiene che in Italia si sia fatto abbastanza per ricordare l’artista di Fluxus?
Ancora una volta il nostro Bel Paese ha perso una importante occasione! L’ho scritto anche nel mio ultimo libro. Ma io dovevo chiudere il cerchio, nonostante non fosse andata a buon fine l’idea di un museo pubblico. Dunque ho deciso di trasformare l’ipogeo, costruito sotto l’emblematico Studio di Beuys, nella creatura che lui aveva concepito: la Piantagione Paradise, e aprire il luogo alle visite. Nel maggio scorso abbiamo avuto due giorni straordinari, malgrado il Covid, alla presenza dei Presidenti della FIU tedesca, olandese, belga, francese.
Sono venuti personaggi anche dagli USA e altri illustri italiani ed esteri. Ma voglio aggiungere che quando Beuys era in vita i critici dell’arte gareggiavano per dedicargli articoli sui quotidiani più importanti. Dopo la sua prematura scomparsa, nel 1986, la critica italiana, compromessa con il potere politico, lo ha totalmente dimenticato.
Ritiene che Beuys abbia lasciato all’Italia doni maggiori di quanti ne abbia ricevuti dal nostro Paese, nel confronto con il suo, la Germania?
Il Maestro tedesco, in Italia, ha mutato totalmente la filosofia dell’arte tradizionale. Ma non dimentichiamo che il governo tedesco e l’intera borghesia tedesca, quando Beuys era in vita, hanno odiato, incarcerato, bastonato a sangue. Anche i suoi figli subivano angherie nelle scuole, soltanto i giovani erano dalla sua parte. Solo dopo anni dalla sua prematura scomparsa, quando è stato riconosciuto come uno dei maggiori personaggi più significativi dell’arte mondiale del secondo dopoguerra, i tedeschi si sono ricordati della sua esistenza innalzandolo come il loro artista più rappresentativo.

 

Beuys a Vert, in Olanda, nel 1975. Foto © Buby Durini. Courtesy Archivio Storico De Domizio Durini.

 

Quale ritiene invece sia l’eredità che lascia Beuys alla contemporaneità e al futuro dell’arte nella società?
La regale eredità che Beuys ha lasciato all’umanità è la sua Living Sculpture. Una scultura sociale fatta di uomini di differenti origini, religioni, nazionalità, di diversi strati sociali, politici, economici, culturali, ma legati insieme da una collaborazione libera e solidale per il Bene Comune di ogni nostro fratello che vive sull’intero globo terrestre.
Oggi si parla molto di transizione ecologica. Beuys è stato indubbiamente lo sciamano di un’arte ecologica, oltre che ispiratore della nascita del movimento dei Verdi in Germania. Anticipatore, dunque, di una sensibilità ambientale e sociale, oltre che artistica, che oggi si manifesta nella vita collettiva di tutto il mondo. Lei pensa che ci stiamo avviando a una transizione ecologica dell’arte?
La Difesa della Natura di Joseph Beuys non va intesa solo sotto un aspetto ecologico ma va letta principalmente in senso antropologico. È in Italia che il suo concetto di Utopia Concreta si realizza attraverso la triade delle Piantagioni: Seychelles – Bolognano – Kassel in Utopia della Terra. È anche vero che Beuys si interessò e fece parte del nascente movimento dei Grünen, ma quando divenne partito si detrasse. Per meglio comprendere il suo pensiero e la sua opera è necessario analizzare il rapporto tra Ecologia e Ambiente. Mentre l’Ambientalismo si interessa a un più efficiente controllo e gestione dell’ambiente naturale a beneficio dell’uomo, l’Ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi degli esseri umani nell’ecosistema planetario. Ed è questo il significato profondo contenuto nell’operazione Difesa della Natura di Beuys, lo Sciamano dal Cappello di feltro.
Lei intravede o riconosce, oggi, altre figure di artisti sciamani, viventi e operanti?
Ho scritto tante volte, e lo ripeterò sempre, che artista si nasce. L’artista, oggi, ha nella trasformazione sociale in atto un ruolo chiave, una responsabilità, perché egli si nutre di ciò che la società condanna, esclude, accantona, dimentica. Vitantonio Russo, con la sua Economia Alchemica, mi ha insegnato come si diviene creatori consapevoli di ricchezza permanente. Marco Bagnoli è per me come il figlio che insegna alla madre un sapere totalmente ignoto.
Vuole raccontare ai nostri lettori un ricordo privato della convivenza con Beuys particolarmente caro e significativo anche per la coscienza del pubblico contemporaneo?
Nel 1979 fummo invitati a passare la Pasqua nella fattoria di Beuys a Vert, in Olanda. Nel tragitto Beuys si fermò e ci mostrò una cava di torba, ne prese un pezzo e iniziò a masticarlo dicendo: “This is beneficial to plants and also to man”. Buby, che Beuys chiamava il fratello italiano, curioso, accettò l’invito, io rifiutai. Ci sono tanti ricordi che potrei raccontare, ma dico solo che vi è una gran differenza tra leggere libri, ammirare le immagini o vedere un film di un artista e il vivere insieme a lui nel pubblico e nel privato, per comprendere quanto la vita sia una grande lezione di umiltà. Beuys è ancora tutto da approfondire, da leggere, da studiare”.

 

 

GIULIANO GORI: DELL’ARTE E DELLA NATURA

L’Arte Ambientale, così come scrupolosamente realizzata alla Fattoria di Celle, può essere a ben diritto definita l’unica disciplina artistica che si pone a totale salvaguardia della natura. Agli artisti si richiede rispetto assoluto del vademecum che regola la vita della collezione, che contiene la massima dell’amico Carlo Belli: i diritti dell’arte terminano dove iniziano quelli della natura. Ciascuno ha facoltà di scegliere lo spazio, destinato ad assumere il ruolo di parte integrante della propria opera, ma non potrà modificare né la parte vegetale né le pendenze del terreno. Essendo la natura materia viva, quindi sottoposta a cambiamenti, il committente a sua volta si impegna a mantenere l’opera così come lasciata dall’artista, operando all’occorrenza con la sostituzione delle stesse qualità vegetative.
A differenza di altre categorie di arte contemporanea, quella ambientale è capace di generare delle operatività che per la migliore realizzazione impegnano committenti, artisti e fruitori, in una collaborazione che vuole aprirsi a nuovi modi di descrivere il mondo e di abitarlo.
Celle è un laboratorio interdisciplinare dell’arte. Realizzata La Serra dei Poeti, di Sandro Veronesi con Andrea Mati per la parte vegetale, abbiamo dato inizio al Premio biennale di poesia Celle Arte e Natura.

 

ANGELO CRESPI: L’ARTE NON È SOCIALE

Con disappunto osservo l’arte ecologica così di moda oggi, l’arte che si occupa di problemi ambientali o, peggio, l’arte povera e poverissima che thumberghianamente usa materiali di riciclo per darsi un tono e fare il verso all’economia circolare.
Essa è recto e verso della stessa medaglia, quella dell’arte sociale che la filosofa dell’estetica Carole Talon-Hugon ci spiega bene: l’artista si trasforma in attivista, l’opera in documento, l’esperienza estetica in esperienza politica, la critica d’arte in supporto didattico, il curatore diventa un intermediario.
Assistiamo a una “disartificazione” dell’arte, cioè a un suo esaurirsi, proprio nel momento in cui le assegniamo compiti più alti, funzioni etiche. L’arte sociale non produce più opere, bensì contenuti che prescindono dalla forma in cui sono fissati.
E in questa tensione politica, anzi politicamente corretta, sta la fine dell’arte come l’avevamo pensata per qualche millennio.
Lo aveva capito Gottfried Benn che la grandezza dell’artista sta proprio nel fatto che gli manca qualsiasi presupposto sociale.

 

ARTE SELLA E LA CATTEDRALE VEGETALE DI GIULIANO MAURI

Arte Sella è una manifestazione internazionale d’arte contemporanea che la Val di Sella ospita dal 1986, con opere realizzate con sassi, foglie, rami e tronchi. Tra le altre, spicca la Cattedrale Vegetale (foto sotto), realizzata nel 2001 dall’artista Giuliano Mauri, costituita da oltre tremila rami intrecciati, a formare una cattedrale a tre navate, con ottanta colonne alte 12 metri su 1220 metri quadrati di superficie. Col tempo, le piante dovrebbero prendere il posto della struttura, destinata a scomparire.

 

 

Marco Scotini: La responsabilità degli artisti? Formare nuovi valori e tornare a incantare il mondo

di Alberto Mattia Martini

L’ambiente è oggi l’argomento più scottante sul versante scientifico, economico, politico. L’arte in che modo risponde?
“L’attuale svolta green, anche a seguito della pandemia, rappresenta un trend, non solo nell’arte. Come per tutte le mode, l’ecologia cessa di essere un’urgenza reale per diventare una strategia di marketing. Il degrado ambientale, all’opposto, non solo permane in tutta la sua gravità ma è reso ancora meno trasparente dalla sua iper-comunicazione. Nonostante tutto ci sono tendenze artistiche che vivono tempi lunghi, non spettacolari. Capaci di confrontarsi con le forme di mutualismo tra esseri umani e non, con le gravi responsabilità del capitalismo e con un lavoro capillare e costante sul rurale, cercano di ri-accedere a quell’insieme di saperi connettivi e polisemie culturali affossate dal capitalismo. Solo riattivando frammenti di ricerca sottovalutati su società umana e agroecologia si potrà superare l’effetto inibitore di teorie totalitarie come il Climate Change o l’ Antropocene, che cercano di depotenziare ogni possibilità d’intervento. Oggi la responsabilità ecologista degli artisti credo consista piuttosto nella ricerca di una de-professionalizzazione del sistema ufficiale e mainstream dell’arte. Allo stesso tempo credo consista nel coltivare un nuovo tipo di creatività autonoma e collettiva.

 

La versione apocalittica dei problemi ambientali può solo generare un’estetica del sublime o del terrore, cioè qualcosa che ancora si situa entro la dimensione modernista del capitalismo e del razionalismo. Lo Stato e l’impresa (scientifica) possono solo trovare soluzioni tecno-burocratiche ed economiciste, attraverso decisioni autoritarie. Ma gli artisti, all’opposto, possono formare nuovi valori e nuovi immaginari per concepire il mondo attraverso nuove politiche dell’attenzione, logiche della sensazione. Per proporre un re-incantamento del mondo, come dice Silvia Federici. Tra le istituzioni votate a questa visione ecologista, la Biennale di Yinchuan, nel deserto del Gobi, stazione importante dell’ex Via della Seta, di cui sono stato direttore artistico nel 2018, ha proposto un’idea di ecologia come “scienza nomade”, a partire da Deleuze e Guattari. Ripensare le ecologie del margine ha implicato convocare molti artisti dai confini occidentali cinesi: dal Centro Asia all’India, al Sud Est Asiatico. Ci siamo confrontati sul rapporto tra uomo e ambiente in tutte le sue dimensioni: naturale, sociale, psichica. La divisione sociale e sessuale del lavoro, così come la sua divisione ontologica (natura e società), sono tutte precondizioni dell’ascesa dell’economia capitalista.
Per ragioni storiche la cultura asiatica ha ancora da insegnarci molto rispetto a mutualità, interconnessione e interdipendenza tra gli esseri viventi, grazie al suo senso mitico della natura, purché non si faccia fagocitare dall’accelerazione tecnologica occidentale. In Occidente, l’arte contemporanea si rapporta al tema ecologico almeno dal tempo della Guerra Fredda, come ho esplorato negli ultimi anni al PAV di Torino studiando l’archeologia delle relazioni tra pratiche artistiche e ambiente alla fine degli anni Sessanta, cercando di restituire un’eredità importante al fenomeno attuale. È stata fondante la collaborazione con Piero Gilardi, tra i primi a condurre una battaglia ecologista con una visione non solo occidentale sul tema, importando in Italia il nome di Joseph Beuys. Un anno fa veniva pubblicato Earthrise: raccoglie tre mostre che su questa archeologia recente confrontano Gianfranco Baruchello con Marko Pogacnik, Ugo La Pietra e il gruppo 9999 con Rudolf Sikora, Joseph Beuys con Ana Lupas e Zorka Saglova, assieme a molti altri. Ma penso anche a Bonnie Ora Sherk col suo progetto “The Farm” (1974) per San Francisco, oppure alla cooperativa agricola Somankidi Coura di Bouba Toure (1977) ora esposta al PAV nella mostra “Sustaining Assembly”.
Ciò che conta dell’insegnamento di quella generazione ecologista ante litteram è che senza l’esistenza di soggettività nomadi, decentrate, plurali, non può esserci ecologia.
Queste soggettività eterogenee nate col Sessantotto, sono mosse da una volontà comune di decolonizzazione e de-patriarcalizzazione delle strutture verso l’autogestione e l’autogoverno dell’ambiente. Una vera emancipazione ecologica potrà venire soltanto da un decentramento del soggetto modernista e dal riconoscimento della biodiversità
e molteplicità della materia vivente”.

 

PISTOLETTO, 100 PANCHINE DAL TERZO PARADISO

100 Panchine per Roma è un progetto nato nel Rebirth Forum Roma 2019 e sviluppato da Cittadellarte – Fondazione Pistoletto, che ha realizzato, attraverso il fundraising, due installazioni temporanee del simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto attraverso 100 panchine in plastica riciclata. Il Terzo Paradiso è un simbolo ideato dall’artista Michelangelo Pistoletto, fra i principali esponenti dell’Arte Povera, per diffondere un messaggio di rinascita e di condivisione.
Il simbolo è tratto dal segno matematico di infinito, ma la linea continua si incrocia due volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano gli opposti di natura e artificio. Il cerchio centrale è il luogo della congiunzione e rappresenta una terza fase di convivenza e rinascita di una umanità nuova. 100 Panchine per Roma porta il Terzo Paradiso nella capitale, dopo essere stato in molte città d’Italia e d’Europa. Centrale il tema della sostenibilità, attraverso l’utilizzo di materiali riciclabili al 100%. Anche in questo caso sono state create delle opere “effimere”, con materiali naturali e di riciclo, che hanno riflettuto sui temi del riutilizzo creativo, della rigenerazione ambientale, del rispetto del diverso. Le 100 panchine sono state infatti realizzate in plastica riciclata da PET, utilizzando un mix di polietilene e polipropilene riciclati al 100% e recuperati attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani. Al messaggio di sostenibilità si aggiunge il valore del mezzo: la panchina rappresenta la pausa e il punto di osservazione, ma è anche un simbolo di inclusione, condivisione e dialogo. “Una sedia può essere occupata da una sola persona, quindi non è democratica. Una panchina può contenere più persone perciò è democratica”, dice Pistoletto: “la parola democrazia è costituita dal greco (demos) popolo e (cratos) potere, e significa potere del popolo. Ma il popolo è costituito da tantissimi individui che, separati l’uno dall’altro, non possono esercitare potere. Come si uniscono gli individui affinché il popolo possa esercitare il potere? Attraverso l’arte della Demopraxia dove il termine pratica (praxis) sostituisce il termine potere (cratos)”. E conclude: “Ogni panchina rappresenta una di queste organizzazioni presenti nei Rebirth Forum, che unite nel simbolo trinamico della Rigenerazione divengono simbolo di una prassi demopratica.
Questa è la realizzazione di un equilibrio dinamico tra privato e pubblico rigenerativo dell’intera società”.

 

PAV PARCO ARTE VIVENTE, LUOGO DI RICERCA SULLE TEMATICHE AMBIENTALI

Vent’anni fa a Torino, da un’idea dell’artista Piero Gilardi, nasce il PAV, Parco Arte Vivente. Un centro sperimentale d’arte contemporanea, che ha come elemento cardine la natura che diviene arte, su tematiche relative alle biotecnologie, all’ecologia, e all’Arte del vivente, della quale fanno parte la Bioarte, la Biotech art e l’arte transgenica. Un luogo dove il pubblico non è solo spettatore ma diviene parte attiva tramite workshop, laboratori, stage e seminari. Oltre a Piero Gilardi, chi ha seguito il PAV fin dalle sue origini è il Direttore Carlo Bonanate, con il quale ci siamo confrontati sull’attività del PAV.
PAV significa Parco Arte Vivente: uno spazio dove l’arte si “connette” con la natura e diviene un’unica espressione?
Il progetto del PAV nasce a metà degli anni 2000 ed è il frutto della sinergia di forze di un gruppo di persone guidate da una visione dall’artista Piero Gilardi, animata dalla fiducia nelle grandi potenzialità insite alle diverse pratiche che indagano il rapporto tra la “natura” e quello specifico mezzo di espressione che chiamiamo “arte”. Parlare di “natura” e “cultura” utilizzando due parole diverse, significa semplificare dell’intreccio inestricabile delle cose: al PAV facciamo spesso riferimento alla nozione di natureculture di Donna Haraway. Cerchiamo di non scindere mai natura e cultura e, più che farle diventare un’unica espressione, ci impegniamo a mostrare, attraverso l’arte, come lo siano già in principio.
All’interno del PAV non esistono esclusivamente opere d’arte create per mezzo della natura, ma sviluppate anche molti altri progetti ed attività. Mi può spiegare quali sono?
Al PAV il visitatore non trova esclusivamente opere d’arte il cui medium principale è la vegetazione. Il PAV sorge su un’area ex-industriale dismessa ed è luogo di incontro, ricerca, riflessione sulle esigenze artistiche e ambientali. Il centro è costituito da un parco, sotto una collina, di 23.000 mq che ospita 19 interventi artistico-ambientali. Accanto alla collezione permanente all’aperto e alle mostre temporanee, il PAV offre un programma di attività e laboratori su temi come la biologia creativa, le ibridazioni, la ricerca tra uomo e natura.
Oggi si parla molto di tematiche ecologiche, molti paesi sembrano finalmente aver capito l’importanza di un mondo meno inquinato e rispettoso dell’ambiente, che è sinonimo della considerazione che dovremmo avere verso “l’altro” e verso tutta l’umanità in generale. Anche nell’arte aumenta questa sensibilità: secondo lei è solo apparente o reale?
Il PAV si occupa di cultura e pensiero ecologico da sempre, anzi, è nato in un momento in cui non eravamo in molti a farlo, specie nell’arte contemporanea. Siamo felici del fatto che finalmente si stia prendendo coscienza della necessità di cambiare rotta a livello sistemico e non vogliamo fare l’errore di scadere in una dicotomia tra apocalittici e integrati, tra ottimismo forzato e acritico e antagonismo ottuso. Ma è necessario tenere alta l’asticella dell’attenzione, perché il cambiamento da fare è enorme, in termini tecnici ma soprattutto politici, culturali. Noi siamo qui per contribuire e incoraggiare il cambiamento, nutrendo fiducia nelle istituzioni ma senza perdere lo spirito critico che ci contraddistingue.
In questo periodo al PAV è in corso la mostra Sustaining Assembly. Pratiche artistiche per la transizione ecologica, curata da Piero Gilardi e Marco Scotini. Ci può spiegare di che cosa si tratta?
Con la parola assembly si vuole far riferimento all’unione di attori molteplici, che si congiungono per l’ecosostenibilità su scala planetaria. La tesi del progetto si basa sull’integrazione e l’interoperabilità tra pratiche sostenibili esistenti. La mostra include artisti che hanno inaugurato progetti collettivi, in tutto il pianeta: Fernando Garcia-Dory con il progetto Inland e Free Home University di Alessandra Pomarico; Zheng Bo, Mao Chenyu e Xu Tan ci parleranno delle comunità in Asia, le questioni ecologiche dell’Australia e i diritti indigeni saranno coperti da Karrabing Film Collective. Yasmin Smith, anch’essa australiana, propone un progetto dedicato alla Terra dei Fuochi. La riflessione sulle pratiche sostenibili prosegue con l’italiano Michele Guido, la storica artista Maria-Thereza Alvez e si chiude il duo composto da Bouba Toure e Raphael Grisey, con la loro ricerca sull’esperienza africana di Somankidi
Coura.

 

 

Vincenzo Campi, quando la natura entrò nella storia dell’arte

di Pietro Quattriglia Venneri

È all’incirca il 1580 e la nostra storia inizia a Venezia coinvolgendo, almeno nelle sue fasi iniziali, due tedeschi uno dei quali particolarmente famoso e potente, uno di quei cognomi che hanno fatto la storia d’Europa finanziando personaggi del calibro di Carlo V e Filippo II: Hans Fugger, uno dei banchieri più potenti del suo tempo che oggi non esiteremmo ad identificare come la punta di diamante del Nuovo Ordine Mondiale cosi ironicamente chiamato in causa dal cospirazionismo internazionale.
L’altro, come spesso accade nei miei articoli, è un mercante d’arte che ha sede a Venezia e risponde al nome di Cristoph Ott, originario di Augusta e che opera in laguna per i più potenti collezionisti tedeschi tra i quali ovviamente figura il nostro banchiere che ha da pochissimo deciso di rimettere in sesto il suo castello di Kirchheim in Baviera e vuole impreziosirlo nei saloni con le migliori opere d’arte disponibili sulla piazza.

 

Vincenzo Campi, Fruttivendola, 1580, olio su tela, cm 135×220. Fuggerschloss, Kirchheim in Schwaben, Augusta (Germania).

Ott è oltremodo ansioso di poter assecondare i desideri del suo ricchissimo committente, conscio di quelli che sarebbero stati gli ingenti introiti che questa transazione avrebbe portato alle casse del mercante anche se, dalla lettura del carteggio tra i due, si intuisce una certa tendenza al risparmio da parte del banchiere.
Le prime tele ad essere inviate ad Augusta sono di quel Parrasio Micheli che era stato allievo di Tintoretto ma non ricevono il placet del Fugger che non ama particolarmente l’idea che siano le opere di un pittore di secondo ordine a decorare le sue sale di rappresentanza e che pertanto il 30 aprile dello stesso anno scrive al suo corrispondente presso la Serenisssima consigliandogli di non proseguire su quella strada e di concentrarsi sul reperimento di opere a tematica esclusivamente profana. A questo punto la nostra storia trova un ulteriore punto di triangolazione geografica a Cremona, città che ritorna per la seconda volta nei miei articoli per questa rivista, dopo l’articolo dedicato nel primo numero all’Anguissola.
Con una lettera inviata ad un suo dipendente a Venezia, tale Sebastian Zäch, Fugger esprime il desiderio di possedere delle opere di Vincenzo Campi, pittore cremonese, affermando che per la buona riuscita dell’operazione avrebbe chiesto la mediazione del conte Giovanni Battista Persico che risiedeva nella cittadina lombarda ed aveva da tempo rapporti con il Campi, aggiungendo alla vicenda altri intriganti elementi proprio come una bella spolverata di parmiggiano su degli ottimi marubini caldi.
Di lì a poco partono, prima per Venezia e poi per Augusta, cinque dipinti: tre Pescivendoli, una Pollivendola e una Fruttivendola e, che ci piaccia o no, è qui che nascono la natura morta e la pittura di genere in senso più ampio.
Ma oltre alla serie delle tele di Kirchheim, nell’inventario dei dipinti presenti nello studio del pittore alla sua morte redatto nel 1591 compaiono una Fruttivendola, il Pescivendoli, il Pollivendoli oltre alla Cucina, ai Mangiaricotta e al San Martino. Le sei opere vengono ereditate dalla vedova del pittore Elena Luciani e tre di queste possiamo vederle oggi a Brera.
La critica non è ancora unanimemente in accordo circa la consecutio temporum esistente tra i due cicli ma unanime è il coro che identifica soprattutto nella Fruttivendola uno dei capisaldi della storia dell’arte italiana: dopo questo dipinto nulla sarà piu come prima.
Una giovane formosa e languidamente erotica siede su una seggiolina con delle succose pesche in grembo porge allo spettatore un grappolo di uva nera circondata da cesti ricolmi di ogni genere di bontà: fichi bianchi e neri, uva, ciliegie, zucche, carciofi, asparagi, fave novelle e piselli e finanche un cavolo verza. Sullo sfondo un paesaggio e nella parte sinistra della tela due figure intente alla raccolta di frutti. Le figure quasi ectoplasmatiche sono in una relazione di marcata subalternità rispetto alla natura silente, ed è proprio qui il grande cambiamento perché per la prima volta il rapporto di forza tra personaggi ed elementi di “corredo” (quali erano fin lì stati i brani di nature morte) viene ad essere totalmente ribaltato in favore dei secondi.
Riprendendo alcuni modelli mutuati dai nordici Piter Aertsen ed Joachim Buchealer, Vincenzo aggiunge quella tendenza burlesca ed estremamente tendente al grottesco e alla deformazione (vedasi I Mangiaricotta) che gli deriva dalla conoscenza di Niccoló Frangipane.
La portata rivoluzionaria di questa invenzione è talmente tanto sconvolgente da arrivare ad essere il modello principale a cui guarderà Caravaggio sia per lo sviluppo del genere naturamortista che per il progresso nella pittura di genere che proprio grazie al maestro milanese raggiunse il suo apice più luminoso.
Nonostante una sua chiarezza figurativa, il dipinto di Brera ha lasciato ancora aperti molti temi in relazione alla sua interpretazione con letture che vanno dal tema amoroso a quello del ciclo stagionale.
Berry Wind nel 1975 sostiene che nella Fruttivendola si debba ravvisare un’Allegoria dell’Autunno ricollegandosi ad una tradizione letteraria che trae origine dalle Metamorfosi di Ovidio.
Molto interessante risulta anche la lettura che ci offre Spike nel 1983 considerando il gesto della donna che porge il grappolo d’uva come un simbolo di verginità o di castità matrimoniale e quindi riconnettendolo al concetto delle Virtù d’amore.

 

Arte sostenibile
Vincenzo Campi, Fruttivendola (figura femminile con frutta),. 1578 – ca.- 1581 ca, olio su tela. Milano, Pinacoteca di Brera.

Sempre Spike e sempre nel 1983 cerca di dare anche un’interpretazione dell’intero ciclo braidense in un’ottica legata al tema dei quattro elementi identificando proprio nella Fruttivendola il riferimento alla Terra, nei Pescivendoli all’Acqua mentre Fuoco ed Aria sarebbero rispettivamente rappresentate dalla Cucina e dalla Pollivendola.
Al netto delle speculazioni che accompagnano da secoli questi dipinti, non possiamo negare quanto fascino riescano ancora a esercitare su tutti coloro che hanno la fortuna di incontrarli e che Dio ci perdoni se perseveriamo, erroneamente, a chiamarle nature morte.

 

 

Graffiti al muschio, reverse e vernici mangiasmog. Così la Urban Art si schiera per l’ambiente

di Christian Gangitano

L’arte urbana può essere uno dei mezzi più potenti per diffondere il messaggio su cause importanti. Che sia usata per sensibilizzare sui diritti o per parlare del cambiamento climatico e del degrado dell’ambiente, l’arte in strada può attirare l’attenzione su problemi che non vengono affrontati con lo stesso impatto da molti media e può connettere le comunità locali con le questioni globali. Ecco allora molti artisti urbani realizzare pezzi creati usando una combinazione smart con la natura e per la natura.
Esistono tre principali tecniche di relativamente recente invenzione, create per coniugare il messaggio a favore della sostenibilità ambientale e dell’ecologia sia dal punto di vista delle tematiche che della tecnica usata.
Ci sono poi i moss graffiti (graffiti di muschio) o di erba e piante, forma di street art che utilizza il muschio o l’erba, acqua, yogurt, a volte birra e zucchero per fare disegni o per scrivere e che ha spopolato sul web, con buone ragioni. Come nelle opere di Anna Garforth, che attacca in giro per le città frasi poetiche e slogan.

 

Altra forma sempre più emergente sono i reverse graffiti, artisti o gruppi come il Reverse Graffiti Project che usano il power-washing per creare opere d’arte sui muri urbani pieni di polvere, di smog, su vetro e persino su automobili non lavate. Esempio notevole è il fregio monumentale di William Kentridge, Triumphs and Laments, creato nel 2016 lungo le sponde del Tevere, ottenuto ripulendo per sottrazione centimetri di polvere inquinante e sporcizia.
Non ultima è poi la “famosa” vernice mangiasmog, usata da Federico Massa (aka Iena Cruz): come nel mega murales inaugurato a ottobre 2018 nel quartiere Ostiense di Roma, Hunting Pollution, il più grande d’Europa di questo genere. Un airone alto cinque piani che caccia la sua preda in un mare molto inquinato, ma che a sua volta sta per essere predato da una piovra mutante sbucata fuori da un barile di petrolio. Un airone che “caccia” via l’inquinamento dell’aria da uno degli incroci più trafficati della Capitale.
La pittura con cui è stato realizzato – la Airlite – ha una promise molto impattante: dodici metri quadrati possono assorbire le sostanze nocive prodotte da un’auto in un giorno. L’intero murales – ben mille metri quadrati – depurerà l’aria della città, è stato calcolato, quanto un bosco di trenta alberi. Tutto ciò è possibile grazie all’azione del biossido di titanio presente nella vernice, che si attiva a contatto con la luce. Già, ma per quanto tempo? L’effetto antinquinante di Airlite dura fino a 10 anni, dopo questo periodo il murales andrebbe rifatto con nuova vernice, o quantomeno ritoccato in gran parte.
La street art sale dunque un ulteriore gradino nel campo dell’ambiente, con altri pezzi mangiasmog in giro per l’italia, come quelli realizzati da Axe o da Alessio B per il festival Super walls a Padova, o a Milano quello realizzato dagli Orticanoodles (cioè, gli street artist Walter Contipelli e Alessandra Montanari) nel quartiere Ortica, dove il duo ha il proprio quartier generale. Dipinto con vernice antismog sui muri del tunnel ferroviario di via Ortica, è dedicato agli alpini tra le due guerre, si intitola Conoscere la guerra per amare la Pace e fa parte del progetto “Orme – Ortica Memoria”, che vuole creare all’Ortica il primo quartiere museo dove la memoria del Novento è dipinta sui muri.
Anche il più famoso colosso svedese dell’arredamento, in una operazione green washing, ha appoggiato la causa dei
murales antismog, impegnandosi per la loro realizzazione.
Grazie a “Ikea loves earth”, lanciato in collaborazione con Airlite, nel giugno 2016 ben 21 street artisti hanno realizzato murales anti inquinamento in 19 città italiane. Tra i risultati, quello creato dallo street artist milanese Pao a Rimini è rimasto quello più iconico e comunicato.
Le tematiche affrontate vanno dalla lotta all’inquinamento al surriscaldamento globale, all’azione distruttiva dell’uomo nei confronti della natura, ma anche alla necessità della ridistribuzione delle risorse o del paradosso
obesità/fame, o di riflessione su ciò che l’uomo sta sacrificando in nome di uno sviluppo economico incentrato
sull’interesse di poche multinazionali, della cementificazione, della deforestazione.
Il tema dell’ambiente, della critica alla globalizzazione che devasta il clima e la natura cannibalizzata dagli affari è spesso affidato a soggetti o a immagini pungenti e irriverenti.
Sin dagli esordi si sono attivati su questo tema noti street artists, come l’italiano Blu, lo stesso Banksy, Eduardo Kobra e Natalia Rak. Ma anche Nevercrew, al secolo Pablo Togni e Christian Rebecchi, che si sono distinti in queste tematiche e hanno reso celebre in città come Zurigo, Dublino, Amburgo, Berlino, Belgrado e Milano opere di arte urbana spesso caratterizzata proprio con messaggi legati all’ambiente e al disastro che l’uomo sta generando sugli habitat di molti animali ormai in via di estinzione. Tra i loro soggetti più iconici, l’orso incastonato in una bottiglia di plastica rossa protagonista dell’opera Exhausting machine realizzato a Vancouver (CA) per il Vancouver Mural Featival, 2016.
O come nella la maestosa murata sul lato posteriore del teatro Colosseo di Torino, nel quartiere san Salvario, con l’opera Black Machine, che raffigura un orso bianco sporco di petrolio che nuota nell’indifferenza.

 

 

Murakami, un’estetica “Superdeep” per parlare di ambiente e futuro

di Christian Gangitano

Quella di Takashi Murakami è una poetica profondamente legata alle culture nate “dal basso” e ai riferimenti estetici alla formazione giovanile della sua generazione, senza disprezzare collaborazioni commerciali con alcuni dei più noti brand e marchi internazionali, a cominciare dalla moda. In grado, però, anche di cambiare registro in favore dei grandi temi civili e sociali, tanto da trasformare il Superflat in Superdeep, con una produzione artistica che spazia dalla relazione dell’uomo con l’ambiente allo sfruttamento delle risorse naturali. Temi che assumono una visione salvifica e spirituale, tanto da trasformare il concetto di Superflat, “mood” originario dell’artista, in qualcosa di più profondo, Deep, appunto, che coinvolge temi inerenti la nostra quotidianità ma anche gli archetipi, la mitologia, l’etica, la filosofia.
Conseguenza di uno shock che, dopo il terremoto avvenuto nel 2011 nel nord del Giappone, che ha causato la tragedia ambientale di Fukushima, di cui ricorre quest’anno il decennale, ha cambiato radicalmente il rapporto dei giapponesi con la natura, lo sfruttamento ambientale e l’inquinamento.
La cosiddetta Estetica Superdeep viene infatti elaborata da Murakami dopo il 2011 miscelando i caratteri tipici dell’arte giapponese tradizionale, l’immaginario feticista (specialmente della sub-cultura) degli Otaku, termine giapponese nel quale Murakami si identifica, che indica, a partire dagli anni Ottanta, gli appassionati e i conoscitori ossessivi di manga, anime e gadget di ogni genere, oltre ai molteplici riferimenti alla filosofia, alla spiritualità, e, seppure in via metaforica, anche all’attivismo etico-sociale.
Una radicale svolta ambientalista che Murakami aveva avuto modo di raccontarmi di persona qualche anno fa, nel corso di un’intervista esclusiva che l’artista mi aveva rilasciato a Milano, in occasione della grande mostra “Il ciclo di Ahrat”, inaugurata nel luglio 2014 presso la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale di Milano, e del lancio del suo film-manifesto Jellyfish Eyes, incentrato sul racconto dell’adolescenza di un ragazzo che confronta il proprio passato con il futuro post Fukushima, e che oggi, in periodo di aumentata attenzione da parte delle nuove generazioni verso i temi ambientali dopo “l’effetto Greta”, risulta quantomai attuale.

 

 

In quella conversazione, Murakami mi aveva parlato a lungo della sua svolta “ecologista”, etica e civile, culminata
appunto nella mostra milanese, ispirata alle figure dei mitici Ahrat, monaci buddisti che affrontano il declino e la
morte, in mezzo a figure mostruose e mitologiche e a paesaggi psichedelici. Una riflessione estetica che aveva come tema la scienza, il progresso, lo sfruttamento delle risorse e la spiritualità, fondamentale per “curare il cuore ferito delle persone”.
Eppure, la svolta di Murakami, nonostante il carattere sottilmente spirituale che la caratterizza, non ha mai avuto vere connotazioni di tipo mistico: “Per quanto mi riguarda, non posso dire di essere religioso. Ma credo che, quando ci si trova di fronte a grandi tragedie o avvenimenti che coinvolgono tutto il globo, è inevitabile che nasca un sentimento religioso o spirituale al quale aggrapparsi”.
Ma la sua è stata una svolta che ha avuto anche una forte connotazione etica e politica: “Per la prima volta dal dopoguerra, in oltre sessant’anni di vita, nel pacifico Giappone sono dilagate manifestazioni in cui ha trovato sfogo l’insoddisfazione delle persone”, mi spiegava l’artista. “Quel mese di marzo del 2011 ha segnato il momento in cui una grande indignazione è esplosa contro lo Stato, che è stato carente e inadeguato nella risposta al disastro di Fukushima”.
“La guerra”, concludeva infine l’artista, “si può anche fermare grazie alla volontà dell’uomo, ma i disastri naturali no. Con i miei lavori recenti, vorrei cercare la salvezza in un dipinto, o in un ciclo di dipinti: come in uno di quei quadri o di che si trovano nelle chiese, che erano in grado di dare la ‘salvezza dell’anima’ a chi vi si accostava per guardarli”.

 

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